Lo scorso 2 ottobre al consolato italiano di Budapest è arrivata una lettera scritta a mano da Ilaria Salis in cui racconta le sue condizioni carcerarie. Il testo, consegnato poi al suo avvocato, è stato mostrato in esclusiva al Tg La7. La lettera spiega meglio di qualsiasi altra testimonianza il trattamento subito dalla giovane italiane nell’istituto penitenziario ungherese in cui si trova oramai da circa un anno.

«Per più di 6 mesi non ho potuto comunicare con la mia famiglia. Il primo settembre (dopo 6 mesi di detenzione) ho ricevuto l’autorizzazione a comunicare con i miei!», scrive Ilaria Salis che nel testo della lettera in cui racconta i problemi di malnutrizione all’interno del carcere (dove vengono serviti solo colazione e pranzo), il lavoro non retribuito agli stranieri, quello sottopagato agli altri. Senza contare che spesso le ore d’aria (una al giorno) combaciano con l’orario della spesa o della doccia e quindi spesso si perde l’opportunità di usufruirne.

La maestra milanese ha raccontato anche come è andato uno dei suoi primi interrogatori: «Il 28 febbraio mi hanno chiamato dalla cella dicendomi che c’era il mio avvocato. L’avvocato non c’era e invece ad aspettarmi c’erano due persone che mi hanno detto di essere della polizia ma non hanno esibito nessun distintivo. Mi hanno detto che il mio avvocato non sarebbe arrivato e neanche l’interprete e che volevano interrogarmi in inglese. Mi sono rifiutata e sono tornata in cella».

Le condizioni igieniche

«Al mio arrivo non mi hanno dato neanche il pacco con articoli per l’igiene personale (...) mi sono trovata senza carta igienica, sapone e assorbenti o cotone (perché sfortunatamente avevo anche il ciclo) fino al 18 febbraio (...) Nelle celle in cui sono stata per i primi 2 mesi mancavano alcuni strumenti per pulire che secondo l’ordinamento dovrebbero essere in tutte le celle (mocio, paletta, secchio, scopetta per pulire il wc), li ho chiesti più volte ma non me li hanno forniti», scrive Salis.

«Sono stata costretta a indossare abiti sporchi, malconci e puzzolenti che mi hanno fornito in Questura e ad indossare un paio di stivali con i tacchi a spillo che non erano della mia taglia». Questo è accaduto nelle prime cinque settimane, prima che il carcere autorizzasse il consolato italiano a visitare Salis e a consegnarle un ricambio di vestiti e di biancheria.

La negazione dello studio della lingua

«Dopo essere stata in cella per una decina di giorni con una donna ungherese sono stata trasferita in una cella singola dove sono rimasta per tutto il mese di marzo. in questo periodo non ero in grado di comunicare le mie necessità oppure se avevo un problema. A settembre ho provato a iscrivermi alla scuola elementare per imparare un po’ meglio l’ungherese ma la mia richiesta è stata rigettata perché non parlo l’ungherese».

Carcerati ammanettati

Nella lettera Ilaria Salis racconta nel dettaglio come avvengono le traduzioni dei detenuti. «Oltre alle manette qui ti mettono un cinturone di cuoio con una fibbia a cui legano le manette. Anche i piedi sono legati tra loro: intorno alle caviglie mettono due cavigliere di cuoio chiuse con due lucchetti e unite tra loro da una catena lunga circa 25 cm. Poi mettono un’ulteriore manetta a un solo polso, a cui è fissato un guinzaglio di cuoio che all’altezza dell’estremità è tenuto in mano dall’agente della scorta. Tutto questo materiale pesa qualche chilo e la legatura ai piedi permette di fare passi molto corti (...) Legata così ho dovuto salire e scendere diversi piani di scale. SI rimane legati così per tutta la durata dell’udienza e sono rimasta così legata anche per tutta la durata dell’esame svolto dall’antropologo».

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