Camminiamo lungo gli scaffali del supermercato pensando a quello che dovremmo comprare per i giorni successivi, districandoci tra prezzi che aumentano, offerte che offrono sempre meno, un “carrello tricolore” (l’iniziativa voluta dal governo per ridurre – almeno nelle intenzioni – il peso dell’inflazione) che non funziona.

L’inflazione altro non è che questo: affacciarsi in una corsia del supermercato e sapere di doverla attraversare spendendo di più o, se non si ha la possibilità di farlo, lasciare lì un prodotto che l’anno prima avremmo acquistato senza far troppo caso al prezzo. Per milioni di persone vuol dire indugiare più a lungo tra gli scaffali, chiedersi «posso permettermelo?», osservare il prezzo e le sue oscillazioni costanti, anzi, il suo aumento, scegliere il prodotto più economico, la marca sconosciuta o, sempre più spesso, il private label (quella miriade di prodotti a marchio della catena del supermercato che, col tempo, sta guadagnando spazio crescente tra gli scaffali).

È una questione di soldi (che non ci sono) e di tempo (che non c’è). Per questo continuiamo a camminare a passo svelto per acquistare cose che ci facciano risparmiare tempo davanti ai fornelli perché, diciamolo, di tempo per cucinare, pulire le verdure, preparare per i pasti successivi non ne abbiamo. E sì, lo sappiamo che sarebbe meglio e si risparmierebbe anche un po’, eppure lo facciamo sempre di meno. Il supermercato e l’industria alimentare allora ci aiutano (sic!) anche in questo, ci “regalano tempo libero” come recitava una vecchia pubblicità delle prime insalate in busta.

Ecco perché i prodotti pronti e i semi lavorati diventano l’alleato principale delle nostre vite, ancora di più quando devono accompagnare la pausa pranzo, quelle fatte di corsa in uffici dove le sale riunioni si trasformano in sale da pranzo e i forni microonde nascosti in qualche anfratto dell’ufficio diffondono odori nauseabondi di piatti preparati da questo o quel collega. Succede a tutti o almeno a chi ha il privilegio di avere un lavoro e una pausa pranzo che possa dirsi tale. E allora quel momento di pausa, quella mezz’ora di libertà passata troppo spesso davanti alla scrivania, la trascorriamo mangiando quello che l’industria alimentare e la Grande distribuzione organizzata  hanno pensato per noi e per le nostre vite senza tempo libero e con i portafogli vuoti.

La schiscetta o il contenitore di plastica logorato dal tempo diventano l’emblema delle nostre vite piene di contraddizioni, dove il cibo rischia di diventare solo nutrimento.

I prodotti pronti e a basso costo arrivano ovunque

Chi ha una vita mediamente attiva e vive in una grande città lo sa bene. È così per tutti, persino nel mio ufficio accade questo, con l’aggravante che si tratta dell’ufficio di Terra!, l’associazione ambientalista di cui faccio parte sin dalla sua nascita, l’associazione che ha l’obiettivo di trasformare i sistemi alimentari (il cibo che mangiamo anche in pausa pranzo) in modo sostenibile.

Anche sul tavolo della pausa pranzo di Terra! accade (non spesso per fortuna) di trovare le contraddizioni delle nostre vite senza tempo libero: c’è chi porta il piatto caldo appena preso dal bar e servito in un contenitore di plastica monouso, c’è chi scalda i ravioli cucinati in pochi minuti e comprati in offerta promozionale al discount, c’è chi beve un succo la cui frutta viene dall’altra parte del mondo, c’è chi apre una busta di insalata pronta da mangiare. Lo scrivo perché nessuno di noi può dirsi esente da questo meccanismo che trasforma la pausa pranzo in un elogio al cibo industriale e iper-processato.

Per rendere sostenibili i sistemi alimentari, dunque, bisogna anche cambiare le nostre vite, pretendere tempi di vita più adeguati e salari dignitosi. Solo così riusciremo davvero a guardare al cibo in modo diverso, più vicino ai bisogni di ognuno di noi, più legato alla terra e a chi quella terra la coltiva. Fino ad allora continueremo a farci regalare tempo libero dai supermercati.

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