Kurt Streeter raccontava il tennis e lo sport con un passo tutto suo, gli pareva che dentro una partita ci fosse l’eco di altro, per esempio «l’onnipresente eredità del razzismo» che aveva sconvolto la nazione dopo la morte di George Floyd e di Breonna Taylor – entrambi per mano della polizia. Così gli pareva e aveva ragione. Era stato l’altra settimana a Flushing Meadows per il primo Slam di Cori Gauff, a un anno di distanza dall’addio di Serena Williams.

Quando parla di sé e del suo lavoro, Streeter dice di non essere stato mai «interessato al tipo di partite urlate che riempiono gran parte del giornalismo sportivo. Il mio obiettivo era scrivere in modo misurato di come sport e atleti incrociano le questioni sociali che agitano la nostra cultura. Ho cercato di essere una voce in questo spazio e di aggiungere un pizzico di narrazione, qualche pezzo occasionale condito di sfacciato divertimento».

Per esempio quando fece un pezzo sul pickleball e un altro sul flopping, la tendenza che esiste nel basket ad accentuare i falli per farsi fischiare uno sfondamento. «Più di ogni altra cosa – racconta Streeter – ho cercato di vivere e testimoniare il più collaudato dei credo giornalistici: confortare gli afflitti e affliggere chi si sente a suo agio - oppure, nel mio linguaggio, combattere dalla parte degli outsider e degli esclusi, degli invisibili e dei trascurati».

Invece è finita. Nella redazione del New York Times, Kurt Streeter passerà a scrivere «articoli sulle meraviglie, la complessità, i problemi dell'America». Non è un incarico di poco conto, ma quando vieni dallo sport, da una certa idea di sport, ti pare che di quelle stesse cose in fondo ti stavi già occupando. Certe volte ti pare che lo stavi facendo perfino in modo più profondo e più onesto, soprattutto con quel famoso «sfacciato divertimento».

È finita perché la vecchia pagina di sport del New York Times ha chiuso, lunedì su carta è stata pubblicata l’ultima edizione a cura di una redazione smantellata. La sezione online porta in cima alla home page la dicitura From The Athletic, sono loro che adesso se ne occupano, i giornalisti del web-magazine acquistato dal giornale all’inizio del 2022 per 550 milioni di dollari, un fenomeno editoriale indicato al suo arrivo come l’astro nascente dell’informazione di settore, un modello, si dice in questi casi, per la sua copertura di altissima qualità di ogni cronaca e di ogni squadra, 150 pezzi quotidiani fra analisi, interviste, anticipazioni. 

L’ultima copia

È andata a finire che il pesciolino ha mangiato la balena. L’ha divorata dall’interno. La notizia che il New York Times avrebbe chiuso la redazione sportiva era stata annunciata un paio di mesi fa. Ci sono state le resistenze del sindacato per un mancato preavviso, per aver ricevuto la notizia della rivoluzione con un sms sul telefono un attimo prima di entrare in riunione.

Ci sono state le critiche dei lettori, le suppliche degli appassionati e degli altri giornalisti, ma la proprietà non è tornata sui suoi passi. Sedici anni fa uscì in Italia un libro del giornalista Vittorio Sabadin, L’ultima copia del New York Times, fondato sui calcoli di alcuni studiosi di editoria americana, secondo cui il quotidiano sarebbe sparito dalle edicole nel 2043.

Probabilmente perché nel 2043 saremmo rimasti senza edicole. Ai piani alti del grattacielo del giornale temevano semmai che la data fatale sarebbe arrivata prima, qualcuno azzardava il 2013. All’epoca si ipotizzava che gli insostituibili fogli di carta sarebbero stati rimpiazzati da contenuti diffusi attraverso Internet da nuove redazione multimediali.

Nel suo libro Sabadin scriveva che i veri nemici dei giornali sarebbero diventati la tecnologia e lo scarso tempo a disposizione della gente, la possibilità di restare informati dovunque e sempre. Tutti concetti nel frattempo digeriti. Cambiare o morire, ordinava Rupert Murdoch a sua volta, ai suoi. 

In effetti il New York Times si è organizzato per cambiare, per non restare con i piedi nel pantano. Ha contato su una redazione sportiva in grado di produrre un nuovo giornalismo grafico di analisi dei dati, accanto a un più tradizionale giornalismo di racconto. Poi ha cambiato il suo modello di business: da azienda basata sulla pubblicità a media company supportata dalle iscrizioni a pagamento. Si sono incrociate due esigenze. Mentre il New York Times cercava più abbonati, The Athletic ne aveva più di un milione da portare in dote, in cambio di soldi, molti soldi. 

La perdita di un mondo

L’ultima pagina di sport del New York Times non è una storia di licenziamenti. Nessuno perde il lavoro, ma tutti perdono un poco del loro mondo: agende, relazioni, sentimenti. Faranno telefonate diverse, parleranno d’altro. In tutti gli articoli di congedo pubblicati in questi giorni, c’è allora un pezzo di vita sospeso, raggelato, come ha scritto Juliet Macur: «Ho iniziato a lavorare in questa redazione 19 anni e mezzo fa e questo momento mi spezza il cuore».

 La copertina dell'ultima edizione raccontava la storia di una calciatrice afghana a cui hanno sparato, per costringerla a lasciare la propria casa. Questo fa lo sport in faccia ai maligni e ai superbi, ai distratti che non lo capiscono, agli snob che lo scartano: parla di corpi e di anime, di gesti e di ferite, di bellezza, di mondi, dell’India attraverso un giavellottista, di donne turche con una squadra di pallavolo. Lo sport è circondato dalle bandiere, ne è pieno, ma viene meglio a raccontarlo senza.

La Francia sciovinista ha dato il premio letterario Antoine Blondin a Gianni Mura e lui disse che Blondin era stato «il suo faro sulla scogliera». L’orgogliosa Catalogna ha assegnato il premio Montalbán a Emanuela Audisio, prima donna di sempre, «per aver trattato lo sport come strumento sociale». Lei tenne un discorso di ringraziamento in cui citava una quarantina di personaggi e c'era un solo italiano, il regista Marco Ferreri: «Da soli si è qualcuno, insieme si è qualcosa».

La veglia

Jeré Longman, il più longevo tra i giornalisti del Times, ha detto: «Era l’ultima cosa che avrei potuto immaginare». Il sindacato ha pubblicato sull'edizione finale i ricordi di due veterani, George Vecsey e Harvey Araton. Titolo: «Dimmi che non è così».

Vecsey ha scritto che in questa estate infelice sono andati sottosopra gli Yankees, i Mets e il Times, le tre grandi squadre di New York. «Game Over? Restate sintonizzati», promettono invece i capi del sindacato, impegnati in una battaglia legale. Ma non è questo. Non è solo questo. Lunedì al New York Times hanno tenuto una veglia silenziosa in redazione e poi sono scesi in marcia.

Era una protesta, sì, ma soprattutto era un lutto, un’esperienza di perdita, irraccontabile perfino per chi ha saputo raccontare tutto. I tempi cambiano, la tecnologia si evolve, le abitudini dei lettori mutano. Restano gli archivi e il ricordo di ogni tango che è stato ballato, direbbero più a sud d’America. Significa che si può togliere una persona dallo sport, non lo sport da una persona. Quello sfacciato divertimento che nessun business plan potrà mai chiudere.

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