Primo sbarco in Europa degli Usa nell’anno del centenario dell’Olimpiade di Parigi, l’edizione che ha uno spazio vasto e speciale nel cuore dei perduti innamorati dei Giochi. Lo sbarco è sull’estuario del Clyde, a Glasgow, per i Mondiali indoor in un lungo fine settimana che copre tre giorni pieni. Mai si era registrata una spedizione così numerosa – sono in 57 – guidati da chi a Parigi vuole scrivere molte storie: Noah Lyles.

Da qualche settimana Noah porta uno di quei barocchi anelli coperti di brillantini che toccano in sorte a chi vince il SuperBowl o il titolo Nba, così grande da coprirgli due dita. «Campioni del Mondo cosa?», aveva detto il labbro di Gainesville, Florida, dopo la campagna d’Ungheria (tripletta 100-200-4x100) ricordando, se era il caso, che in atletica gareggia il mondo e uno del Burkina Faso può diventare campione del mondo. Qualcuno si era scandalizzato e aveva parlato di lesa maestà delle grandi leghe, ma qualcuno aveva finito per convenire che in effetti SuperBowl, Nba, World Series di baseball e di hockey su ghiaccio assegnano il titolo americano di corporazioni molto ricche, molto potenti. Il titolo del mondo è un’altra cosa.

Lyles ha esordito nel nuovo impianto indoor (o short track, come da nuova etichetta voluta da World Athletics, sempre pervasa da sete di rinnovamento) di Boston, ha corso e vinto in 6”44, si è migliorato di 7 centesimi (tanti), su una distanza in cui le sue doti di progressione possono esser soltanto intravviste negli ultimi trenta metri. Usando quei parametri così amati dai suiveur dell’atletica può venir ipotizzato che 6”44 possa trasformarsi all’aperto in un tempo sotto i 9”80. Il tempo di Noah è anche il record del meeting: era 6”45 di Maurice Greene, non uno qualsiasi. Ai Campionati Usa di Albuquerque, New Mexico, ha fatto meglio, 6”43, lasciandosi alle spalle di un centesimo il primatista mondiale della distanza, Christian Coleman.

La tecnica

La partenza, più bassa, non è fulminea, ma tra i 10 e i 20 metri Noah sa trovare l’assetto e da quel momento ne ha ancora 30 per scatenare la sua progressione. È significativo che sia a Boston, su Akeem Blake, che a Albuquerque, su Coleman, abbia vinto di un centesimo in rimonta.

«Voglio tutte le medaglie», aveva detto Noah al solerte intervistatore Lewis Johnson, volto noto nelle televisioni americane ed ex-mezzofondista. E dopo, parlando ai reporter, aveva chiarito che la prima sarà quella dei Mondiali indoor di Glasgow e che le altre saranno quelle in palio ai Giochi di Parigi: tre, forse quattro, se ci sarà bisogno di lui in una battagliata frazione di 4x400. Noah ha un personale ridicolo, 47”, ma chi corre i 200 in 19”31 e abitualmente attorno ai 19”50 può far meglio, molto meglio, un paio di secondi abbondanti come minimo. Sarebbe un affascinante e nuovissimo poker, diverso dalla quadruplice corona 100-200, 4x100-lungo di Jesse Owens e Carl Lewis. «Io sono pronto e posso assicurare che in seconda o terza frazione posso mettermi in caccia e correre in 43”».

Il personaggio

Qualcuno dice che Noah sia guascone, smargiasso, che parli troppo. Di certo c’è che oggi, con Armand Duplantis, lo svedese d’America che con l’asta ha superato settantacinque volte 6 metri o più sino al 6,23 del record del mondo, riempie l’atletica alla ricerca di sensazioni da offrire a un pubblico facile e rapido ad annoiarsi, sostengono i massmediologi e gli esperti di audience e share.

L’atteggiamento dipende da come a uno è andata la vita. Noah non ha passato un’infanzia e un’adolescenza felici e così ama profondamente sua madre, Keisha, per i sacrifici che ha dovuto sopportare per allevare lui e Josephus. Un tempo si diceva «una storia di miseria e di riscatto». Nel caso di Lyles, di ambizione assoluta. «Punto ai record di Usain Bolt. Non ci riuscirò? Bene, proverò, proverò, proverò ancora». Non è una novità che il primo obiettivo, da tempo, sia il 19”19 berlinese sui 200 del Lampo, avviato verso il quindicesimo anniversario. Già l’anno scorso Lyles si era fatto stampare 19”10 sulle scarpe che gli vengono fornite dall’Adidas, con cui ha firmato un nuovo contratto, pare il più lucroso nella storia dell'atletica, superiore ai 10 milioni annui con cui la Puma si legò a Usain Bolt.

Vuole lasciare il segno e in parte lo ha lasciato: tre titoli mondiali, un podio olimpico (che lo ha deluso), una frequenza sotto i 20” che non era così comune neppure per Usain il Grande. Pare abbia nel mirino anche il record mondiale della 4x200 che un quartetto giamaicano, senza Bolt, centrò a Nassau, Bahamas, dieci anni fa, in 1’18”63, media 19”66. Con lui, Bednarek, Knighton e magari suo fratello Josephus si può fare.

Le altre stelle

Oltre a Lyles gli Usa hanno molte altre punte (il gigantesco Ryan Crouser nel peso, Grant Holloway imbattibile nella breve versione al coperto degli ostacoli alti, Jarred Nuguse nel mezzofondo, Tara Davis nel lungo) e ha una forte intenzione di dettar legge nei confronti di un’Europa che, con Francia e Germania in crisi, ha oggi molti solisti e soliste (Armand Duplantis, l’olandese Femke Bol, della Bambi, dominatrice dei 400 e all’aperto dei 400hs, lo scozzese Josh Kerr, campione mondiale dei 1500) ma nessun paese con spiccata forza d’urto, a parte l’Italia. La Coppa Europa conquistata l’anno scorso è un segno profondo e l’annuncio di una abbondante raccolta agli Europei di Roma, ad inizio giugno.

L’Italia

A Glasgow gli azzurri inseguono almeno una vittoria (il prodigioso 19enne Mattia Furlani nel lungo, capolista mondiale con 8,34) e una serie di podi: Zaynab Dosso nei 60, Larissa Iapichino nel lungo (sua madre, Fiona May, fu campionessa mondiale indoor nel ’97, cinque anni prima che Larissa venisse al mondo), Catalin Tecuceanu negli 800, Lorenzo Simonelli nei 60 ostacoli, Emmanuel Ihemeje nel triplo, Leonardo Fabbri e Zane Weir nel peso. Il fiorentino è vicecampione mondiale all’aperto e il sudafricano, con radici materne triestine, al coperto è il campione europeo in carica. Gara durissima, per qualità la migliore della Glasgow Arena.

© Riproduzione riservata