Quando Eddy Ottoz lasciò andare il figlio Laurent, ostacolista come lui, duro e tosto come lui, grato e ingrato come sanno essere i figli che devono partire - e lui partiva dopo aver tolto al papà il record italiano dei 110 che resisteva da 27 anni - disse una cosa sola, ma definitiva: «Non volevo finire per fare il padre sul campo e il tecnico a casa». Lui non voleva, il figlio neppure, si separarono e vai a sapere se fu un bene o un male e di chi fu la colpa. Meglio, e molto più sano e giusto, pensare che non sia stata colpa proprio di nessuno, se non di quella che banalmente potremmo chiamare vita.

Tra padri tecnici e figli atleti va esattamente come va tra padri e madri e figli e figlie che si occupano di altro, quando in famiglia i piccoli finiscono per scegliere la strada dei grandi. È sempre un grosso azzardo, anche se poi l’azzardo nella vita può essere assai comodo - il nepotismo in molte professioni, compresa la nostra, ha spesso garantito il futuro dei figli - mentre nello sport è quasi sempre scomodo, a meno di non avere geni e carattere da fenomeno, alla Paolo Maldini per capirsi.

E negli sport individuali, e in quelli ad alta ripetitività dei gesti tecnici - nuoto, tuffi, tennis, ginnastica, per citare solo alcuni dei più feroci - la convivenza tra il genitore allenatore e il figlio campione o aspirante tale diventa un esercizio acrobatico. Le storie di Gianmarco Tamberi e Larissa Iapichino, nella loro attuale apparente asimmetria, sono lì a dimostrare come l’equilibrismo possa evitare la caduta o invece provocarla. E comunque, in entrambi i casi, l’atleta, il figlio, il campione non avrà mai la controprova che la sua scelta di restare in famiglia o andarsene sia stata la migliore. Una diabolica condizione umana, ben prima che sportiva.

I casi opposti di Iapichino e Tamberi

Prendiamo questi due ragazzi d’oro: uno già molto d’oro, olimpico ed europeo, ma anche maturo trentunenne; l’altra dall’avvenire luminoso come i suoi 21 anni che cominciano a riempirsi anche di risultati, dopo le tante promesse.

Lui, Gianmarco, con il papà a bordo pedana ha raggiunto il massimo: ha vinto le Olimpiadi nel salto in alto, e il loro abbraccio commosse quasi quanto il gesso che l’azzurro si era portato in pista a ricordo dell’infortunio che gli aveva fatto perdere i Giochi precedenti. Eppure, eppure, già prima di Tokyo, il figlio aveva più volte parlato della durezza del rapporto con il padre, del disagio di un’intimità che mescolava i ruoli, dell’overdose di condivisione: «Passo molto più tempo con lui che con la mia fidanzata».

Dopo quei Giochi trionfali e dopo un altro anno vissuto disagiatamente, Gianmarco è volato via, altrove, con un tecnico ex saltatore di non eccelso livello, Giulio Ciotti, con un suo staff medico lontano dalla Federazione, con una vita sportiva tutta sua da continuare, e vedremo come andrà. «Avevo sempre l’impressione che mio padre non mi ascoltasse», ha detto: una frase scolpita nelle millenarie pietre delle relazioni padre-figlio, applicabile più o meno all’universo tutto.

Lei, Larissa, ha una situazione familiare intricata, con una mamma super campionessa e simbolo della speranza di un’Italia migliore, Fiona May, e un padre più modesto atleta, Gianni Iapichino. Si separarono anni fa.

L’allora minorenne Larissa scelse il papà, al momento dell’affido dei figli, mentre sua sorella minore Anastasia rimase con la mamma, una decisione condivisa, nulla di traumatico. Poi però Larissa, fenomenale lunghista fin da bambina sulle orme di Fiona, ha scelto il papà anche come tecnico, liquidando quello federale, Gianni Cecconi, che pure l’aveva portata ai primi clamorosi risultati. Due anni di black out e infortuni, ma Larissa quest’anno ha ricominciato a saltare lungo lungo: ha vinto la sua prima medaglia importante agli Europei indoor, un argento, poi recentemente due tappe della Diamond League, che è il circuito di eccellenza assoluta (anche per ingaggi e guadagni) dell’atletica mondiale.

Quello che sembrava un rischio, adesso sembra una scelta giusta. Ma basta andare a rileggere quanto si scriveva dopo il flop di Larissa ai mondiali dell’anno scorso, per capire quanto in fretta possa cambiare un giudizio dato dall’esterno quando si mettono le mani nella materia più interna che esista, quella del legame tra un figlio e i suoi genitori.

I tormenti del tennis

D’altra parte, lo sport trabocca di storie fatte apposta per stuzzicare i giudici sommari. I papà padroni, tecnici o manager, riempiono ormai oltre che i libri anche la filmografia dedicata al tennis: Agassi e il suo aguzzino Mike, le sorelle Williams e il loro implacabile Richard, Wozniacki e il tremendo Piotr, eccetera eccetera. «Do un consiglio ai genitori che vorrebbero vedere i loro figli campioni di tennis: lasciateli stare, fateli divertire» ha detto recentemente Ana Ivanovic, ex numero 1 del mondo.

Sembra facile, ma nello sport di alto livello proprio non lo è, mai, quando il divertimento diventa un lavoro e cominciano a girare i soldi, parecchi. È lì che a volte i genitori perdono il controllo di sé e prendono quello dei figli, spesso generando problemi destinati a segnare la loro vita. «Il rapporto tra padri e figli più riuscito è quello in cui il primo non ricopre di troppe aspettative il secondo, ma lo accompagna nella ricerca della sua strada», dice Vittorio Lingiardi, ordinario di psicologia dinamica alla Sapienza, psicoanalista e saggista di successo.

«Come Dedalo che mette le ali sulla schiena di Icaro, ma ammonendolo a non puntare troppo in alto verso il sole. Nello sport, che ha nella massima performance il suo scopo, questo non ha senso: è impossibile allenare un figlio senza chiedergli di diventare Icaro. E dunque di rischiare di bruciarlo. Per questo nel dubbio mi sembra sempre meglio separarsi». Lo stesso concetto e lo stesso topos mitologico, usato proprio da Eddy Ottoz, che parlando del tema in un’intervista con Emanuela Audisio su Repubblica aggiunse un’altra considerazione assoluta: «Nello sport il vero fenomeno non è allenabile. E il padre, se è bravo, lo è perché fa il minor danno possibile».

Le eccezioni

Certo che poi ci sono le eccezioni, ne è pieno il mondo, e quindi anche lo sport. Valga per tutte quella di Mikaela Shiffrin, la più brava sciatrice di sempre, plasmata tecnicamente dalla madre Eileen ed equilibrata umanamente dal padre Jeff: “Be nice and have fun”, era l’insegnamento di mr. Shiffrin. Non è un caso che quando Jeff è morto improvvisamente in un incidente domestico, Mikaela abbia sbandato come mai aveva fatto tra i paletti dello slalom, impiegando mesi e mesi di dolore e silenzio per riuscire a tornare sé stessa, prima ancora che una campionessa.

Perché poi, forse, tornando alle parole di Tamberi sul divorzio dal padre, il problema vero sta in quel verbo così banale, eppure così complesso: ascoltare. C’è modo e modo per un padre di ascoltare un figlio, e i figli non sono certo una categoria, non sono tutti uguali, ci sono quelli che parlano tanto e quelli che non parlano mai, quelli che spalancano gli occhi e quelli che voltano la testa dall’altra parte, quelli che vedono i genitori come una luce e quelli che pensano sia il buio da cui scappare per trovarla.

Ascoltare significa anche ascoltare i silenzi o il dolore, e trovare parole giuste, come quelle che Giorgio Cagnotto seppe dire a sua figlia e allieva Tania a Londra 2012, quando lei aveva visto la medaglia olimpica di bronzo andarsene via all’ultimo tuffo per 20 centesimi di punto, cioè nulla. Migliaia e migliaia di salti, capriole, avvitamenti, carpiati per inseguire qualcosa svanito in uno schizzo d’acqua.

Giorgio, che di medaglie olimpiche ne aveva vinte quattro, prese Tania da parte e le seppe dire cose che non sappiamo, ma che la portarono a non ritirarsi, a superare il suo piccolo grande trauma, a prendersi quella medaglia quattro anni dopo: felice, finalmente felice e pronta per un’altra vita, dove Giorgio, finalmente anche lui, è tornato ad essere solo papà. Anzi, nonno.

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