Le donne spesso rimandano il momento di fare figli, o vi rinunciano del tutto, perché dovrebbero pagare un prezzo troppo alto al lavoro. È orrendo detto così? Sì. Ma è anche molto vero.

In maniera più poetica: le donne lavoratrici indossano un mantello invisibile con una lettera scarlatta, quella molto visibile –  la M di mamma. O meglio, la U di utero. Perché per far partire la discriminazione basta quello: la possibilità.

«Da quando avevo ventitré anni, a ogni colloquio mi hanno sempre chiesto quando avevo intenzione di fare figli» racconta Marta, che oggi a 47 anni è responsabile marketing in un’azienda emiliana, e peraltro di figli non ne ha avuti: «Quindi la domanda, oltre che meschina, è anche molto spesso inutile! Una volta in un’agenzia per il lavoro mi sono alzata e me ne sono andata via, dicendo che non mi interessava lavorare per un’azienda che era più preoccupata dei miei progetti personali che delle mie competenze. La cosa che mi fece più male? La recruiter era una donna».

I dati confermano lo scenario. Le ragazze arrivano al diploma con voti più alti dei maschi; quelle che vanno all’università si laureano bene e presto. Ma appena mettono piede nel mondo del lavoro partono le discriminazioni. Fin dai colloqui, appunto, malgrado il divieto imposto dall'articolo 27 del Codice delle pari opportunità. Quando vengono assunte, lo stipendio è più basso: a cinque anni dalla laurea, secondo Almalaurea, circa il 20 per cento in meno dei coetanei maschi.

E poi a un certo punto, intorno ai 31 anni e mezzo – questa l’età media al primo figlio per le italiane – alcune diventano mamme. Di pochi figli, eh. Uno virgola 25 per ciascuna (sembra strano, ma in statistica anche i bambini sono frazionabili). E tenere il passo nel mondo del lavoro diventa ancor più difficile.

L’equilibrio impossibile solo per le donne

Secondo i dati dell'Ispettorato del lavoro, 31.500 persone con figli hanno dato nel 2021 le dimissioni, in Italia, adducendo come motivazione la difficoltà a conciliare il lavoro con i figli, per ragioni legate ai servizi di cura (per esempio: l’assenza di parenti di supporto, i costi troppo elevati di nido e babysitter) o legate all’azienda (condizioni di lavoro difficilmente conciliabili con le esigenze di cura della prole, indisponibilità del datore a rendere flessibili gli orari…). Oltre 30mila erano madri lavoratrici: uno sconcertante 96 per cento. Solo poco più di mille padri lavoratori si sono dimessi per queste ragioni.

Il cliché che le donne siano più portate all’accudimento fa gravare tutto, o quasi, sulle spalle delle madri. Alessandra Minello, docente di Demografia all’università di Padova, lo ha spiegato nel saggio Non è un Paese per madri (Laterza) demolendo in maniera puntuale e accurata il “mito della maternità”, vera palla al piede di tutte le donne – anche quelle che adorano essere madri! – e immaginando un futuro in cui anche gli uomini, liberati dagli stereotipi di genere, possano davvero condividere le attività di cura e di genitorialità senza sentirsi sminuiti, contribuendo a rendere paritario anche il mercato del lavoro.

La retorica sul “mestiere più importante del mondo”

Ma la realtà è ancora retrograda. Se le madri lavoratrici non riescono a trovare la quadra per far combaciare tutto, il pensiero diffuso è che sia un problema loro. Possono rinunciare al lavoro. O trovarne uno meno impegnativo, un part-time. Del resto, che li fa a fare una donna i figli se poi non se ne occupa? Il mestiere di mamma è il più importante del mondo, no?

No. Il mestiere di mamma è importante, certo, ma dato che i figli nella maggior parte dei casi si fanno in due, anche il mestiere di papà lo è altrettanto. E il lavoro è centrale per tutti: garantisce l’indipendenza economica, per i più fortunati è anche fonte di realizzazione. La scelta che fanno alcune persone – donne, il più delle volte – di non lavorare e occuparsi della casa e della famiglia è perfettamente legittima, fintanto che è libera (e sostenibile).

Ma chi deve, vuole, desidera lavorare, perché mai dovrebbe essere considerato meno valido per il fatto di avere figli a casa, o figli in potenza? E perché questo pregiudizio viene declinato solo sulle donne? Quei nove mesi di gravidanza, o i mesi congedo maternità o di orario ridotto per l’allattamento, non sono che una frazione dei quarant’anni abbondanti di vita lavorativa che attendono ciascuno di noi dal primo impiego alla pensione. Eppure sembra che siano una montagna insormontabile.

Il congedo della discordia

A ben vedere, alle lavoratrici dipendenti il congedo obbligatorio in Italia è pagato dallo stato (nella misura dell’80 per cento della retribuzione, per cinque mesi). Le aziende sono però chiamate a continuare a versare i contributi e talvolta ad assicurare la differenza, in modo da arrivare al 100 per cento. Alcune lamentano la difficoltà di dover assumere una nuova persona per pochi mesi per la “sostituzione maternità”, e in effetti capita che la sostituzione non venga predisposta, con un effetto domino di scontento sui colleghi. Oppure che la persona in sostituzione prenda in pianta stabile il ruolo della neomamma, la quale al rientro si trova “spodestata” e in alcuni casi spinta a mollare. Le imprese più piccole, poi, mal sopportano il fatto di dover anticipare in busta paga la retribuzione alle donne in congedo, e attendere di essere poi rimborsate dall’Inps.

Ma in verità non è nemmeno il congedo che spaventa – sono i successivi dieci-15 anni, moltiplicati per tutti i (pochi) bambini messi al mondo. Per i quali magari non si troverà posto al nido; che si ammaleranno, saranno tra i piedi in quando la scuola è chiusa, faranno recite scolastiche, andranno a calcio. Sottrarranno tempo e attenzione. Bambini che il mercato del lavoro continua a considerare figli solo delle madri, dando per scontato che solo loro dovranno gestirne ogni imprevisto: una discriminazione a priori e a senso unico, con buona pace della genitorialità condivisa.

Il lavoro di cura in azienda

Lo sa bene Sonia Malaspina, che da HR manager in Danone ha avviato una policy di tutela della carriera delle madri in azienda che ha portato ottimi risultati: 100 per cento di rientro dopo la maternità, assenteismo e turnover ridotti al minimo. Tutti fattori che si possono tradurre in beneficio economico per l’azienda, risultato di una semplice pratica: valorizzare anziché demonizzare la maternità.

Dopo aver raccontato il progetto in un TEDx, Malaspina ha scritto con la collega Marialaura Agosta il libro Il congedo originale, appena pubblicato da Roi edizioni con il sottotitolo “Perché le aziende temono la maternità”. 150 pagine dense di dati e soprattutto della ricetta che, metriche alla mano, dimostra che la maternità non è un handicap al lavoro. Al contrario.

Un enorme potenziale di competenze

«Siamo consapevoli che stiamo andando contro secoli di cultura, prassi e modi di pensare» ammettono nel libro Malaspina e Agosta «e la sfida può sembrare impossibile». Ma la posta in gioco è troppo importante: un mondo del lavoro che non disincentivi il fare figli. Non a caso il tasso di fecondità in Danone è più alto della media italiana, e i dipendenti hanno anche a disposizione la piattaforma di formazione online Maam, “Maternity as a master”, che permette di trasformare le competenze soft che si acquisiscono prendendosi cura di un bambino in competenze professionali. «Vita e lavoro non sono affatto in conflitto: si generano competenze ed energie che le madri e i padri possono trasportare da una sfera all’altra» spiega la fondatrice Riccarda Zezza.

Disfarsi di una dipendente quando fa un figlio è un grosso errore, perché si perde un enorme potenziale di competenze. Se le aziende abbracciassero compatte questa visione potremmo davvero avviare una rivoluzione nel mondo del lavoro. Le donne non percepirebbero più i figli come una minaccia alla loro vita professionale. E probabilmente ne farebbero di più: riducendo il gap, oggi enorme, tra figli desiderati e figli avuti.

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