Vanno in scena in questi giorni a Roma gli Stati generali della natalità. Una due giorni di convegni benedetta dal Vaticano – più o meno letteralmente, dato che papa Francesco ha aperto la prima edizione nel 2021 e torna quest’anno di persona – che mette al centro della discussione il calo delle nascite che l'Italia sta vivendo ormai da molti anni.

C'è bisogno di parlare di natalità? Certo, e l’evento ha il pregio di mettere il tema sotto i riflettori. Sul palco si avvicendano vertici politici di tutti i partiti, top manager, studiosi, giornalisti, artisti. Tutti d'accordo sul fatto che la denatalità vada contrastata, tutti con la loro best practice da raccontare. Oggi, nel primo giorno, un nutrito gruppo di ministri ed ex ministri; domani, per la seconda giornata, ci sarà la premier Giorgia Meloni e il papa, poi una tavola rotonda tutta aziendale su quanto la natalità produca ricchezza, e un’altra intitolata “Senza speranza non c’è futuro”.

Stati poco generali

Ma questo tema va affrontato in maniera laica e inclusiva – da paese laico e inclusivo. E forse questi “stati generali” poi tanto “generali” non sono. I promotori sono due realtà: oltre alla Fondazione per la natalità è centrale il ruolo del Forum famiglie. Il padrone di casa, Gigi De Palo, è il presidente della prima ed è stato fino a due mesi fa anche presidente nazionale del secondo.

Il Forum famiglie è una rete di associazioni sul territorio; nel suo sito, alla pagina “Cosa Chiediamo”, cita il “diritto di ogni essere umano fin dal concepimento, alla vita, alla famiglia, all’identità genetica e psicologica”, la necessità di "reintrodurre il principio orientatore del diritto alla vita e provvedere ad un ripensamento della Legge 194”, la legge che sancisce il diritto all’aborto, e di ottenere “uno statuto giuridico dell’embrione umano” (che sarebbe appunto la pietra tombale su quel diritto). Non a caso Salvini nel suo intervento ha tessuto le lodi dei Centri di aiuto alla vita.

Siamo ben lontani da una visione laica del problema della denatalità, che rafforzi l’uguaglianza tra uomo e donna e ponga al centro, come un vero e proprio diritto umano, il poter scegliere liberamente quanti figli fare e quando farne.

Bonus e incentivi

Ma su quel palco questo si può dire? Quando si parla di possibili soluzioni molta, troppa enfasi viene posta sul problema economico che il calo delle nascite determina, e le soluzioni offerte sono troppo spesso solo su questa linea: bonus e incentivi. Salvini ha perfino lodato una misura di incentivo per acquistare auto a sette posti, segno di buoni propositi riproduttivi.

Ma che posto si dà alle radici culturali della denatalità? Al triplo peso che ogni figlio mette sulle spalle delle donne, alle disuguaglianze nei luoghi di lavoro, agli stereotipi di genere che ancora determinano la suddivisione dei lavori di cura all'interno delle famiglie? Gli indicatori dimostrano quanto sia difficile per una donna che voglia essere indipendente e lavorare essere anche madre.

La scelta sempre più frequente di posticipare è un segnale d’allarme, così come l’aumento dell’età media al primo figlio, o la diminuzione inesorabile del numero di figli per donna: oggi siamo a 1,25, il che fa schizzare alle stelle il nostro fertility gap – il divario tra figli desiderati e figli avuti – dato che in realtà gli italiani, in media, di figli ne vorrebbero due.

Un problema di disuguaglianze

Mara Carfagna ne ha parlato definendo il diritto alla maternità come “priorità politica”; Elly Schlein e Giuseppe Conte nei loro interventi hanno indicato precarietà e contratti a termine come formidabili contraccettivi. Vero.

Ma la lotta al precariato è un assoluto dovere della classe politica (finora largamente inadempiente) verso l’intera popolazione, a prescindere dalla natalità. E comunque da sola non risolve nulla, se non si potenziano contemporaneamente i servizi per l’infanzia e la parità di genere in famiglia. Perché altrimenti una volta fatto il bambino, chi abbandonerà il lavoro per prendersene cura?

Agli Stati generali solo timidi accenni a soluzioni coraggiose per affrontare la disuguaglianza nel mondo del lavoro, come per esempio un radicale potenziamento del congedo di paternità (citato anche da Conte: adesso che è all’opposizione ne fa una battaglia, quando era premier molto meno).

Renderlo lungo esattamente quanto quello di maternità fermerebbe sul nascere le discriminazioni sul lavoro basate sull'assunto che una dipendente donna sia una seccatura perché potrebbe andare in congedo maternità (cinque mesi, fino a dodici) quando per un uomo sono dieci giorni scarsi (e non è nemmeno detto che li chieda).
Sarebbe bello che da Roma, per una volta, si guardasse davvero al futuro. Il futuro che vorrei per le nuove generazioni e specialmente per le nostre figlie: donne forti, istruite e libere di decidere della loro vita, di essere credenti o non credenti in una stato laico e rispettoso delle diversità tra i suoi cittadini, libere di fare i figli che avranno voglia di fare, con chi vorranno, quando vorranno e se vorranno. Pio desiderio?

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