È un vizio nella natura dell’uomo quello di trovare la pagliuzza nell’occhio dell’altro e non accorgersi della trave nel proprio. Quindi non deve stupire che ci sia cascata anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

In questo caso la pagliuzza è la cosiddetta mafia nigeriana, su cui ancora non c’è una storia giudiziaria chiara e definitiva. A questa la premier nel 2019 ha dedicato un libro, dall’originale titolo Mafia nigeriana, insieme allo psichiatra Alessandro Meluzzi. Libro curiosamente non citato nel curriculum della premier in cui si passa da Noi crediamo del 2011, al best seller Io sono Giorgia del 2021.

È tornato agli onori della cronaca nei giorni dell’uscita de Il mondo al contrario del generale Vannacci per la similitudine delle tesi razziste e xenofobe sostenute in entrambi i testi. La trave, invece, è la presenza di indagati o condannati per reati connessi alla mafia o per associazione mafiosa tra coloro che hanno fatto parte del partito fondato nel 2013 da Meloni.

L’ultimo caso è quello di Alberto Filippi, l’imprenditore con un passato nella Lega e in Fratelli d’Italia, accusato dall’antimafia di aver ordinato alla ‘ndrangheta un’intimidazione a colpi di pistola a un giornalista che si occupava dei suoi affari immobiliari.

Nello stesso anno in cui Meloni firma il libro sul pericolo nigeriano, in Emilia accade qualcosa di molto più rilevante e imbarazzante per il partito di Meloni: l’arresto di Giuseppe Caruso, ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza, di recente condannato in via definitiva a 12 anni e 2 mesi per associazione mafiosa. Per i giudici era ai vertici di una cosca in Emilia.

Con lui, al centro dell’inchiesta “Grimilde” della procura antimafia di Bologna, c’erano i principali esponenti della famiglia Grande Aracri, che ha portato all’espansione e al radicamento della ‘ndrangheta nel nord Italia, trasformandola in ‘ndrangheta emiliana. Giorgia Meloni dichiarò subito: «Fratelli d’Italia è pronta a costituirsi parte civile nel processo per difendere la sua immagine e la sua onorabilità».

Peccato che non lo abbia mai fatto. Altro episodio è quello di Roberto Rosso, ex assessore in regione Piemonte, condannato a 4 anni e 4 mesi in appello per aver chiesto e pagato voti alla ‘ndrangheta per le regionali del 2019. In questo caso, la premier aveva subito promesso di costituirsi parte civile al processo: e così è stato, con i giudici che hanno condannato Rosso a risarcire con 75mila euro il partito.

Propaganda razzista

Il libro di Meloni viene pubblicato pochi mesi dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro a Macerata, da parte del nigeriano Innocent Oseghale. Sempre a fine 2018, la Direzione investigativa antimafia dedica per la prima volta un approfondito focus di 37 pagine sulle associazioni criminali nigeriane in Italia. Basta sfogliarle per smentire gran parte delle tesi presenti nel libro della premier e di Meluzzi.

Gli africani gestiscono piazze di spaccio con il benestare dei boss italiani. La criminalità nigeriana si è sviluppata è proprio grazie alla convivenza con ‘ndrangheta, Cosa nostra e camorra.

Lo dimostra anche la sentenza della Cassazione che lo scorso febbraio ha assolto dalle accuse di mafia per 5 componenti della Black Axe: i giudici hanno sottolineato come Cosa nostra aveva nei nigeriani una manovalanza a disposizione per i propri fini piuttosto che un temuto competitor.

Sicuramente però non c’è il traffico di organi, di cui parlano Meloni e Meluzzi nel libro: «Lungo l’autostrada del Sole, su cui si svolgerebbe la gestione nazionale del traffico d’organi, sarebbero stati rinvenuti resti di cadaveri smembrati».

Nel focus della Dia del 2018, precedente al libro della Meloni, e in quelli successivi, non ci sono riferimenti al traffico di organi: non è chiaro perché debbano tenere nascosta una storia così sconvolgente, se vera. Nel libro non mancano ovviamente descrizioni tanto fantasiose quanto xenofobe tra storie di cannibalismo e teorie della sostituzione etnica.

Secondo il co-autore del libro, Meluzzi, Meloni «non le dice più certe cose, si è adeguata ai poteri forti, ma magari le pensa». L’unica certezza è che sui rapporti tra le mafie italiane e la destra non abbia molta voglia di dire la sua così come sulle tesi del generale Vannacci.

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