Una Fiat Panda gialla sfreccia nella notte, a bordo c’è un uomo armato, assoldato da un industriale nonché ex senatore per intimidire un giornalista. Quel 16 luglio 2018 cinque colpi di pistola scuotono la tranquilla cittadina dal torpore.

La spedizione è stata organizzata per recapitare un messaggio inequivocabile. Pochi anni prima un noto imprenditore ben inserito nei circuiti politici ingaggia una gruppo di mafiosi per proibire, con minacce e violenza fisica, l’attività sindacale tra i lavoratori della sua cooperativa. A a partire dallo stesso periodo la stessa cosca dominante sul territorio aveva iniziato a beneficiare di denaro proveniente da una fondazione pubblica che gestisce uno dei monumenti più noti al mondo. E quasi sotto silenzio è passata la condanna di un manager e fedelissimo dell’ex sindaco di destra per una mazzetta nell’ambito di un’indagine sulla ‘ndrangheta. 

Sul cartello che accoglie chi arriva in questi luoghi non c’è scritto Tijuana o Guadalajara, ma Verona, Padova, Vicenza e Venezia. È il nord est che traina l’economia italiana, un territorio di conquista della ‘ndrangheta, l’organizzazione mafiosa calabrese che meglio di altre ha saputo radicarsi fuori dai territori di origine. È un Veneto sconosciuto quello raccontato in migliaia di pagine di atti giudiziari lette da Domani. Il feudo della Lega e di Fratelli d’Italia, dove il colore predominante è il grigio delle relazioni tra boss, industriali, politici e manager pubblici.

La ‘ndrangheta ha sfruttato il silenzio della classe dirigente del territorio, a volte scesa a compromessi senza batter ciglio, e il ritardo delle procure, solo nell’ultimo periodo in grado di svelare meccanismi che in altre regioni del nord erano emerse a partire dal 2010 con inchieste che hanno segnato la storia dell’antimafia. 

Uomini d’affari

«Per decenni si è preferito negare, voltarsi dall’altra parte», dice Pierpaolo Romani, padovano e coordinatore dell’associazione Avviso Pubblico, realtà che connette gli enti locali contro mafie e corruzione. Romani è profondo conoscitore delle logiche usate dalle famiglie criminali nel nord est: «I mafiosi in Veneto indossano la maschera di rispettabili uomini d’affari, usano la corruzione, procurano voti. Ma i veneti devono ricordare una cosa, pur di accumulare ricchezze e potere e di controllare i pezzi di mercato i mafiosi, se serve, utilizzeranno anche la violenza». 

L’analisi di Romani ha trovato conferme recenti in una serie di indagini della procura antimafia di Venezia, competente su tutta la regione per i reati collegati alle mafie. Nell’ufficio giudiziario in cui ha lavorato come procuratore aggiunto l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio, per molto tempo la mafia non era una priorità.

Da qualche anno, invece, la musica è cambiata radicalmente: arresti e sequestri di beni hanno permesso di quantificare una presenza fino ad allora sfuggente. A questo nuovo corso si è aggiunto il lavoro certosino di alcuni prefetti che una volta arrivati sul territorio hanno usato gli strumenti delle interdittive antimafia per arginare le infiltrazioni nei lavori pubblici. Metodo che ha funzionato in Emilia Romagna e che sembra funzionare anche qui, dove peraltro i magistrati e gli investigatori sono alle prese con le medesime cosche che hanno trasformato l’Emilia in «terra di mafia» (come è stata definita durante l’apertura di un anno giudiziario).

Stessi nomi, identici casati, analoga area di provenienza dalla Calabria: provincia di Crotone, dai paesi di Isola Capo Rizzuto e Cutro. I cognomi che danno il marchio alla cosca sono Arena, Nicoscia, Grande Aracri, il cui capo stipite è considerato uno dei più potenti boss dell’organizzazione calabrese ed emiliana. Un padrino legato alle vecchie tradizioni ma abile nel accumulare un capitale di relazioni fatto di massoni, professionisti, politici, imprenditori e sponde in Vaticano. Ora tutto questo rischia in qualche modo di essere scalfito, soprattutto per quel che riguarda la roccaforte veneta: due collaboratori di giustizia della ‘ndrangheta veneta hanno offerto ai magistrati materiale sul quale lavorare mentre uno già al centro delle inchieste emiliane aveva dato impulso ad altre verifiche che sono sfociate di recente in un’operazione che ha messo nel mirino alcuni appalti pubblici con la fondazione Arena di Verona, nel cui board troviamo il Comune, la regione Veneto, la camera di commercio, il ministero della Cultura.  

Arena connection

Questa è una storia che ha molti capitoli, dunque, intrecciati tra loro. E i protagonisti si ripetono come in un trama ordinata. Gli incipit potrebbero essere molti. Il più utile per capire gli ingredienti di questo impasto criminale è però un verbale, finora inedito, del 31 maggio 2016 del pentito Giuseppe Giglio, imprenditore della ‘ndrangheta emiliana. 

«Questo Domenico dimora in Verona, dove è dedito all'emissione di fatturazioni per operazioni inesistenti in favore di una impresa che allestisce impalcature all'Arena di Verona. Questa impresa paga le fatturazioni per operazioni inesistenti, oltre all'Iva, un ulteriore dieci per cento. Questa impresa è vicina ad alcuni politici veronesi, che le assicurano importanti commesse pubbliche». Poche righe per descrivere il sistema messo in piedi dalle cosche in Veneto. Il «Domenico» citato da Giglio di cognome fa Mercurio, oggi è pure lui un pentito, uno dei due che sta facendo tremare clan e potenti, industriali e politici del nord est.

Mercurio è una figura che lega varie vicende accadute negli ultimi anni tra Verona, Vicenza e Padova. è un imprenditore, «un fatturista» per l’organizzazione, cioè ha messo le sue aziende a disposizione dei capi bastone per lucrare e riciclare con le fatturazioni per operazioni inesistenti: lo schema di business di cui la ‘ndrangheta padana è maestra, come hanno dimostrato le indagini in Emilia, Lombardia e Veneto. Giglio oltre a indicare in Mercurio l’anello di congiunzione tra imprese venete e ‘ndrangheta, aggancia questo connubio alla politica. Sostiene, infatti, che dietro gli appalti vinti dalla società collusa con Mercurio ci sia la manina di alcuni politici della giunta di allora, quella di Flavio Tosi, che dal 2007 al 2017 ha governato la città.

Tosi è stato un leghista duro e puro, poi silurato da Matteo Salvini per contrasti interni. Nella sua giunta c’era anche Federico Sboarina (Fratelli d’Italia), a sua volta successore di Tosi. Dal giugno 2022 il sindaco è l’ex calciatore Damiano Tommasi, che ha portato il centro sinistra alla vittoria, clamorosa, nella città dal cuore nero.

Il racconto di Giglio riguarda il periodo Tosi, tanto che il pentito in un altro interrogatorio sempre sull’argomento appalti della fondazione Arena di Verona ha aggiunto: «Queste vicende sono legate alle dimissioni dell’assessore leghista della giunta comunale di Verona nel 2014». In quell’anno in effetti si era dimesso l’assessore allo Sport Marco Giorlo: la trasmissione Report aveva indagato sui rapporti di Giorlo e la famiglia Giardino, costruttori di origine calabrese, ma di casa nel veronese, e legati alle cosche Arena – Nicoscia.

L’ex assessore non è stato però coinvolto in inchieste o processi sui rapporti con i Giardino. Ma secondo il pentito Giglio l’uscita di Giorlo sarebbe legata anche agli appalti della fondazione Arena di Verona. Tutto da verificare, naturalmente. Di certo i verbali di Giglio in cui racconta delle società collegate ai clan in affari con la fondazione sono in possesso della procura antimafia di Venezia, che ha già di recente fatto un passo in avanti sulla vicenda con un’indagine che ha coinvolto Mercurio, l’imprenditore veneto Giorgio Chiavegato e una pletora di “fatturisti”.

Chiavegato è il titolare dell’azienda che otteneva i lavori dalla fondazione, una volta fatturati ( i pm sospettano fosse tutto sovrafatturato con un danno anche per la fondazione pubblica) il denaro si disperdeva in una girandola di fatture per operazioni inesistenti fino a finire nelle casse di aziende della cosca di ‘ndrangheta. Il meccanismo lo ha confermato ai pm lo stesso Mercurio, che ha deciso di collaborare con i magistrati: «Ho partecipato alla ‘ndrangheta e favorito l’arricchimento del loro patrimonio economico», ha ammesso, per poi spiegare che «Chiavegato con le sue società fatturava un importo maggiorato di lavori alla fondazione Arena per almeno 150mila euro al mese». 

A leggere le carte resta il forte sospetto che l’inchiesta non si sia esaurita in questa prima tranche di provvedimenti. Negli atti sono vari i riferimenti a dipendenti e consulenti della fondazione che avrebbero avuto un ruolo nel favorire Chiavegato e quindi i suoi amici della ‘ndrangheta. Una delle piste seguite da chi indaga è capire se chi doveva controllare è stato solo un distratto amministratore oppure la collusione riguardava in profondità l’ente. Sulla fondazione peraltro si è innescata la prima battaglia del nuovo sindaco Tommasi: il comune aveva proposto una nuova dirigente, Lyon Terracini, ma la maggioranza dei “soci” (regione, camera di commercio in primis) ha scelto per la riconferma di Cecilia Gasdia per l’incarico di Sovrintendente dell’Ente Lirico.

La stessa che non si è accorta di quanto stava accadendo nel settore appalti e manutenzione, con i soldi che fuoriuscivano per arricchire anche la ‘ndrangheta. L’inchiesta non è ancora chiusa, a ottobre 2022 c’erano stati alcuni arresti, grazie anche alle dichiarazioni del pentito Mercurio, coinvolto anche nel processo madre sulla ‘ndrangheta in Veneto: Isola Scaligera, questo il nome dato all’operazione che ha messo alla sbarra decine di ‘ndranghetisti e complici, tra questi anche figure molto legate all’ex sindaco Tosi. 

Terra promessa

Nel processo Isola Scaligera i capi cosca sono stati condannati in primo grado il 4 marzo 2023 per associazione mafiosa in Veneto. Sentenza storica. A maggio, in secondo grado è stato condannato uno degli uomini più fedeli a Tosi, poi passato a Fratelli d’Italia fino all’allontanamento post verdetto: si tratta di Andrea Miglioranzi, esponente del neofascismo cittadino, passato con l’allora sindaco leghista, il quale lo aveva nominato presidente di Amia, l’azienda pubblica Amia che si occupa di raccolta rifiuti. Un posto prestigioso, origine dei guai giudiziari di Miglioranzi: indagato e poi condannato per aver intascato una mazzetta da 3mila euro per favorire «gare indette o da indire ad hoc da Amia a favore della scuola» gestita da un dirigente della cosca, per organizzare «corsi aggiornamento e qualificazione professionale anche parzialmente fittizi».

Nella stessa inchiesta erano emersi i collegamenti con la massoneria di uno degli affiliati, che intercettato rivelava l’affiliazione alla loggia di Verona persino di un carabiniere: «Ha l'incarico di guardiano del tempio! dove controlla gli accessi ... ma è da anni che lui è dentro nella loggia di Verona!». Il sodale del clan, invece, si è iscritto «per fare soldi e affari», diceva. Anche con il business dei fondi europei, da intercettare grazie ad amicizie ventennali dentro ai ministeri a Roma: «Allora la situazione dei fondi europei...è sempre la stessa persona che mi dà gli appalti, mangiano quel giusto, non hanno mai mangiato troppo!», si vantava il massone affiliato al clan. 

I segnali di una presenza mafiosa in Veneto con epicentro Verona erano visibili da tempo. Se solo la classe dirigente della destra che ha governato da sempre in città li avesse voluti cogliere. Invece sono stati sempre più forti i sospetti che hanno pesato sulle amministrazioni Tosi: l’ex sindaco era stato fotografato in campagna elettorale con uno dei Giardino e nell’inchiesta emiliana era emerso dalle intercettazioni un pranzo nel veronese cui avrebbe partecipato Tosi con un industriale e il braccio destro del boss Grande Aracri. Tosi quest’ultima circostanza l’ha sempre smentita, a dirlo è stato l’uomo del clan intercettato.

Dicevamo dei segnali. Come i cinque colpi di pistola sparati a Padova per intimidire Ario Gervasutti, ex direttore del giornale di Vicenza, poi passato al Gazzettino: secondo il pentito Mercurio a ordinare la spedizione sarebbe stato l’industriale e ex senatore della Lega Nord Alberto Filippi (vedi articolo a fianco), l’esecutore sarebbe stato invece Santino Mercurio, parente del pentito. Metodo violento che al nord la ‘ndrangheta usa con parsimonia, quando serve. Per esempio per recuperare crediti per conto di clienti veneti.

O per impedire ai sindacalisti di fare il proprio mestiere in cooperative di noti imprenditori veronesi: è il caso di una grossa cooperativa che ha avuto anche commesse con il Comune di Verona e che avrebbe usato gli uomini della cosca per zittire un sindacalista. In pratica la cosca opera come una sorta di società di servizi alle imprese: dalla violenza alla fatturazione. La ‘ndrangheta nel feudo della Lega e di Fratelli d’Italia lavora così.

© Riproduzione riservata