Il 19 aprile 1977 Marco Bechis ha vent’anni. Riconosce la paura dall’odore. È l’«odore acre di sudore» dei militari argentini che lo sequestrano a Buenos Aires. Più di vent’anni dopo, per raccontare le torture subite usa le immagini. Garage Olimpo del 1999 è tra le sue opere più note. Una pellicola ancora attuale, che con Figli/Hijos viene riproposta domani al parco della Cervelletta di Roma, nella rassegna organizzata dai ragazzi del Cinema America. Per fare i conti con quel giorno del 1977, però, il regista ha bisogno delle parole. Gli serve un libro, La solitudine del sovversivo, edito da Guanda quest’anno.

“Mai più violenza di stato” era il titolo della nostra prima pagina dello scorso primo luglio. Il riferimento è ai fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lei è stato vittima di violenza di stato, anche se in altri luoghi e tempi: fu torturato in Argentina, durante la dittatura militare, nel 1977. Cosa le evocano i fatti di oggi?

Ho riflettuto su questo. L’Italia non è diventata come l’Argentina o il Cile degli anni Settanta, e fare paragoni impropri significa sminuire ciò che è avvenuto in quei paesi. Ma qualcosa unisce la mia storia, i fatti di Genova e i massacri della scuola Diaz e di Bolzaneto vent’anni fa, Santa Maria oggi. È il meccanismo burocratico e militare della violenza, che va oltre la malvagità individuale ma si fa sistema. Ho visto i video pubblicati da Domani. Ho visto violenza gratuita, colpi sferrati come fossero adempimenti. Stavolta, come ai tempi di Genova, ci si è permessi di fare tutto questo perché c’era un’indicazione dall’alto. Non significa che gli agenti vadano discolpati perché obbedivano, tutt’altro. Ma bisogna ricostruire tutta la catena delle responsabilità. Capire il perché di un tale senso di impunità.

Domani ha raccontato i fatti per molti mesi, ma la politica ha fatto finta di non vedere. Solo la pubblicazione dei video ha costretto a porre attenzione. Lei ha sentito l’esigenza di mettere in scena l’esperienza argentina, il campo di concentramento, nel film Garage Olimpo. È necessario vedere perché si prenda atto?

La parola e l’immagine suscitano effetti diversi: l’immagine si presenta come autoevidente, vera di per sé, mentre le parole suggeriscono la necessità di una verifica. In realtà non è così: anche una immagine è parziale, è una inquadratura, è frutto di una scelta di cosa mostrare. Le parole possono essere portatrici di verità mentre le fake news possono alimentarsi di immagini. Io in Garage Olimpo non mostro la violenza. Il mio non è un film alla Tarantino, che amo, ma che lavora all’interno di un codice, per cui sai che la violenza è finta. Faccio esattamente l’opposto: racconto la violenza vera lavorando per sottrazione. Lo spettatore che si trova di fronte a una porta chiusa con una radio a tutto volume deve immaginare, senza alcun indizio esplicito, cosa sta accadendo. Cioè, la tortura.

Quando la sceneggiatura di Garage Olimpo è arrivata ai produttori, uno di loro ha dato parere negativo dicendo: «La tortura l’abbiamo già vista». Non solo nella fiction, anche sui media esiste una pornografia del dolore. Qual è il confine tra immagine necessaria ed esibizione?

Non è necessario esibire le immagini del corpo martoriato di Giulio Regeni per esigere giustizia. Una immagine violenta provoca emozione, appaga perché finisce lì, mentre la comprensione arriva attraverso il ragionamento. Per me mostrare la tortura in un film o in un documentario è inutile se non controproducente, per almeno due motivi. Il primo è che esibendo la violenza le si sottrae potere. Il secondo è che si alimenta una illusione: ci si illude che aver visto significhi aver esperito, e che mostrare il dolore basti a trasmettere un’esperienza.

Eppure lei, sequestrato per ragioni politiche, desaparecido, ha fatto ricorso alle immagini per trasmettere il suo vissuto.

L’ho fatto attraverso immagini indirette. Quando leggiamo un libro, questo ci evoca immagini, anche se è fatto di parole. Sarebbe sbagliato pensare che un film, che è fatto di immagini, non abbia il potere di evocarne a sua volta. L’immagine più potente di un film non è quella che si vede, ma l’immagine interiore che viene suggerita. Cercando una chiave per raccontare fino in fondo il disagio, ho trovato che il modo migliore fosse quello di obbligare lo spettatore a immaginare ciò che sta succedendo; io mostro per vie indirette.

Un gioco di inferenze. Come quando lei stesso intuisce le torture subite dagli altri imprigionati attraverso i suoni. Nel suo memoir c’è «l’urlo disumano con cui ognuno di noi prigionieri fa il conto». C’è «il ronzio implacabile della picana», lo strumento di tortura, sordo alle implorazioni del prigioniero: «Per favore, smettete!».

Del resto io per primo, non ho potuto vedere. Ero bendato. Ho dovuto costruirmi le immagini, ricostruire, perché sul momento non sapevo neppure dove fosse localizzato il campo di concentramento.

Perché occultare la vista?

Se fossi sopravvissuto, non avrei riconosciuto i miei aguzzini. E poi, il mio sguardo su di loro sarebbe stato d’intralcio. Quando guardi in faccia un torturatore, fai appello alla sua umanità; gli rendi più faticoso farti del male.

Lei vede chi la ha torturata molti anni dopo. Che emozione le rimane di quel giorno in tribunale?

Nel 2010 il tribunale di Buenos Aires mi ha invitato a testimoniare sul mio sequestro. Più di trent’anni dopo, mi sarei ritrovato di fronte loro, quei militari ormai invecchiati come me, chi mi aveva torturato, picchiato, incatenato e chi ha deciso che sarei sopravvissuto. I parenti dei militari e quelli delle vittime venivano tenuti separati. Io ho voluto con me i miei amici, e questo mi ha dato sicurezza.

Ha convissuto con il senso di colpa di essersi salvato. Suo padre, all’epoca manager Fiat, riuscì a ottenere la sua liberazione. Le è servito un lungo percorso per riconoscersi come vittima.

Il senso di colpa è dovuto al fatto di sapersi vivi mentre altri sono morti. Non è semplice imparare a convivere con questo. Si può fare qualcosa, però, di tutto questo. È quello che ho provato a fare con le mie opere.

La parola desaparecido sembra lontana. Non lo è, se non altro perché gli strascichi giudiziari di quel che è successo in America Latina arrivano fino a oggi.

Si può dire che questa parola in Italia abbia contribuito a portarla io, negli anni Ottanta. Il meccanismo – la scomparsa, la repressione dello stato contro i propri cittadini – è attualissimo. È successo in Bosnia, succede in Libia. L’unico modo per lenire le ferite è la giustizia. Non tutti la ottengono. Esiste una violenza sociale chiamata impunità. Fino a poche settimane fa mi trovavo in Uruguay, dove i processi rispetto all’Argentina sono stati molti meno. Ho presentato Garage Olimpo nella città di Mercedes, davanti a un pubblico di sopravvissuti alla dittatura uruguayana. Questi anziani signori si muovono tuttora come se fossero in pericolo. Il motivo me lo la ha spiegato Angel, uno di loro. Fu appeso e gli fu messo il fuoco sotto i piedi, cammina tuttora male. «Ogni tanto quando faccio la fila in farmacia incrocio quello che mi ha bruciato i piedi, è libero, mi saluta pure».

Nel libro scrive che «umano e politico si intrecciano». Cosa resta di umano nelle violenze di stato?

È proprio questo il punto. La spersonalizzazione della violenza, la sua burocratizzazione, fanno sì che lo stato stesso possa trasformarsi in una Bolzaneto. Può succedere ovunque, finché c’è qualcuno che dice: «Ci penserà qualcun altro al posto mio». Una società disimpegnata è una società a rischio. Una ragazza di un liceo di Roma, dopo aver assistito alla proiezione di Garage Olimpo, si è alzata e mi ha urlato: «Adesso lei ci deve dire che cosa dobbiamo fare». Bisogna fare politica, impegnarsi per la cosa pubblica. Ecco cosa possiamo fare.

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