Soffia un vento di restaurazione in Emilia. La normalizzazione cavalca la necessità moralizzatrice del Consiglio superiore della magistratura, costretta a rottamare al più presto il passato macchiato dal caso Palamara. Impressioni e turbamenti personali si trasformano così in prove schiaccianti che determinano, per esempio, la caduta di Marco Mescolini, procuratore di Reggio Emilia fino al suo trasferimento per incompatibilità ambientale deciso dal Csm. Una decisione influenzata da pressioni mediatiche e politiche di chi era finito in disgrazia a causa di inchieste che hanno cambiato la percezione della mafia nella regione e nel paese.

Per il Csm Mescolini è incompatibile in tutta la regione. Troppo legato al potere politico locale, è l’accusa grave della prima commissione dell’organo di autogoverno delle toghe. Dura meno di due anni, quindi, l’esperienza di Mescolini a Reggio, nel fortino di quell’organizzazione criminale che ha combattuto da sostituto procuratore dell’antimafia di Bologna: la ‘ndrangheta emiliana, impasto di imprenditoria, politica e clan che dagli anni Settanta ha messo radici nella pianura padana e che per quasi quarant’anni ha lavorato indisturbata. Con procure immobili e detective impreparati ad affrontare l’avanzata dei clan. Funzionava così. Con fascicoli sui boss che venivano spediti in Calabria o in Campania perché in Emilia nessuno aveva il coraggio di scrivere su una carta bollata della procura «416 bis», reato di associazione mafiosa.

Tutto cambia a partire dal 2009, alla guida della procura arriva l’esperto procuratore Roberto Alfonso, l’ideologo della lotta sistematica alle mafie in Emilia. È proprio sotto le ceneri della più importante indagine contro la ‘ndrangheta al nord, di cui Alfonso è stato la mente e Mescolini il braccio, che ha covato il rancore di chi da quell’operazione mastodontica è stato colpito duramente.

Populismo togato

L’intervento del Csm su Mescolini è una conseguenza indiretta del caso Palamara, istantanea sul funzionamento del mercato delle nomine negli uffici direttivi di procure e tribunali. Palamara, l’uomo che tutto decideva nel Csm, è sotto inchiesta per corruzione: sono bastati pochi mesi perché si trasformasse da carnefice dell’etica a moralizzatore dei costumi giudiziari. Oggi è a tutti gli effetti il fustigatore delle toghe: il suo libro è usato come il vangelo dal quale pescare frasi, messaggi, pizzini, da usare contro quel giudice o quel pm. Da carnefice a eroe, appunto. Il percorso inverso rispetto a quello di Mescolini, da toga antimafia che ha inferto un colpo brutale alle cosche emiliane a appestato in combutta con il Pd che governa la regione da sempre. Dunque più che sulle chat, il trasferimento di Mescolini si fonda su questioni politiche. Mescolini farà comunque ricorso al Tar.

Una storia emiliana

Mescolini inizia da sostituto procuratore, per qualche tempo va da fuori ruolo nel gabinetto del viceministro Roberto Pinza, all’epoca del governo Prodi, di nuovo magistrato sul fronte dell’accusa alla procura di Bologna dove diventa sostituto procuratore nella sezione antimafia, la Dda, ufficio che per molto tempo non ha toccato palla nella lotta ai clan, proliferati a dismisura tra gli anni Settanta e Duemila tra Rimini e Piacenza.

Nel 2009 arriva Roberto Alfonso, considerato di area conservatrice, con grande esperienza nella guerra totale alle cosche. Alfonso rivoluziona il sistema di indagine. Chiede ai suoi sostituti di leggere ogni singolo reato in un quadro complessivo. È la svolta. Punta su Mescolini, al quale affida il delicato fascicolo “Aemilia”. «Lo considerava brillante», dice chi ha vissuto in quegli anni il cambio di rotta dell’ufficio giudiziario. Mescolini in realtà non è una toga d’assalto, ha un profilo bassissimo. Eppure con Alfonso e Beatrice Ronchi toccano i livelli più alti della complicità mafiosa tra Modena, Reggio, Parma e Piacenza.

L’inchiesta sui clan calabresi trapiantati in Emilia è per numeri la più imponente mai effettuata al nord. Mai come in quell’indagine il potere politico è stato messo a nudo: l’indagine ha portato allo scioglimento per mafia del consiglio comunale di Brescello, a guida Partito democratico, primo caso nella storia della regione. Ha travolto il municipio di Finale Emilia, sempre governato dai democratici, dove arrivarono i commissari per valutarne il commissariamento. Le perquisizioni sono arrivate fin dentro la prefettura di Modena coinvolgendo il vice prefetto, contestando al senatore Carlo Giovanardi l’aggravante mafiosa (poi decaduta) per aver tentato, con minacce a due ufficiali dei carabinieri, di salvare un’impresa modenese (accusata di complicità con la ‘ndrangheta) dall’esclusione dalle white list, gli elenchi di ditte “pulite” ai quali era obbligatorio iscriversi per lavorare negli appalti della ricostruzione post terremoto.

La stessa indagine Aemilia che ha portato a processo consiglieri comunali del centrodestra e rappresentanti di Forza Italia, come Giovanni Bernini: pupillo dell’ex ministro Pietro Lunardi, prescritto per il reato di corruzione elettorale, incontri con il boss documentati e agli atti. In un capitolo successivo della stessa inchiesta è finito in carcere e poi condannato a 20 anni per associazione mafiosa l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza: Giuseppe Caruso, Fratelli d’Italia.

Processo alla destra

A scagliarsi contro Mescolini sono i dirigenti dei partiti che in questi anni hanno visto i loro colleghi sfilare nelle aule di tribunale insieme a boss e collusi di vario genere. Interrogazioni parlamentari a pioggia firmate da amici di Giovanardi, di Caruso e di Bernini con cui si chiedevano provvedimenti duri per il procuratore di Reggio alla luce della pubblicazione delle chat con Palamara.

Bernini è stato il primo a dichiarare guerra all’indagine Aemilia dopo la pubblicazione delle conversazioni nelle quali Mescolini chiedeva a Palamara informazioni sulla fissazione del plenum per decidere della sua nomina a procuratore di Reggio. I messaggi si collocano in un arco temporale preciso: tra gennaio e luglio 2018, mesi caldi del maxi processo alla ‘ndrangheta, con una requisitoria di migliaia di pagine da scrivere. «La necessità di Mescolini in quel momento era definire la sua posizione per non creare scompensi organizzativi a un procedimento da tutti considerato storico», spiega una fonte investigativa che ha lavorato fianco a fianco con il pool di magistrati.

Bernini e molti altri del suo partito considerano Aemilia una montatura per colpire solo una parte politica: la destra. L’occasione delle chat era troppo ghiotta, da accusato è diventato il principale accusatore del pm che lo aveva trascinato a processo. La tesi del politico è che i pm hanno salvato il Pd, nonostante gli elementi raccolti su Graziano Delrio, storico sindaco di Reggio Emilia.

Uno di questi indizi era il viaggio di Delrio a Cutro durante la campagna elettorale del 2009 in occasione della processione del Santissimo Crocifisso. Cutro è il paese d’origine della cosca che domina nella provincia reggiana dagli anni Settanta. In gita con Delrio c’era anche il candidato del centrodestra. Entrambi furono ascoltati come persone informate dai magistrati che conducevano Aemilia: un interrogatorio duro, in cui l’ex sindaco Pd palesa la sua inadeguatezza nel comprendere le dinamiche criminali in atto sul proprio territorio. Il pool di magistrati aveva anche chiesto a Delrio come mai avesse accompagnato alcuni imprenditori cutresi dal prefetto di Reggio Emilia, che si sentivano minacciati dalle interdittive emanate da quest’ultima contro aziende legate alle cosche.

I magistrati non hanno cambiato valutazione su di lui: era un testimone, nulla di più. A differenza di altri politici poi processati non era mai stato a cena con mafiosi e né gli investigatori avevano mai documentato incontri con affiliati per chiedere voti, al contrario di quanto emerso su Bernini, per esempio.

«Parziale»

La relazione della prima commissione del Csm firmata da Antonino Di Matteo, il magistrato che ha portato a processo la trattativa stato-mafia, è molto dura nei confronti di Mescolini. Dà ampio risalto ai sospetti di Bernini.

«La mia riflessione era che d’ora in avanti qualunque tipo di indagine fosse stata fatta da questa Procura sicuramente avrebbe suscitato in un senso o nell’altro un sospetto, un sospetto di essere conniventi con qualche parte politica», è una delle preoccupazioni esternate da Valentina Salvi, pm da oltre dieci anni a Reggio Emilia, tra le quattro firmatarie dell’esposto nei confronti di Mescolini. Il motivo? Troppa pressione mediatica aveva causato un turbamento dell’intera attività investigativa. Salvi cita anche un esempio: un’inchiesta in corso sugli appalti al comune di Reggio, con centinaia di indagati. Contesta a Mescolini di aver insistito per posticipare le perquisizioni alcuni giorni dopo le elezioni.

Una scelta che ha indignato Salvi. Eppure quel fascicolo sugli appalti porta il numero di registro 2016, la prima informativa della guardia di finanza è del 2017. Mescolini si insedia a settembre 2018. Perché non era stato fatto niente prima e l’urgenza si presenta nei giorni del voto? Le perquisizioni alla fine si faranno come aveva suggerito Mescolini due giorni dopo le elezioni. Altro elemento del contendere è il sindaco del Pd Luca Vecchi: la pm sostiene che Mescolini aveva impedito l’iscrizione nel registro degli indagati, ma come è emerso durante l’udienza del Csm Vecchi è tuttora indagato. Salvi è la pm che, con a capo Mescolini, ha firmato l’indagine “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti dei minori che ha travolto il sindaco Pd di Bibbiano, arrestato e poi rilasciato.

L’inchiesta stava costando le elezioni regionali di gennaio 2020 ai democratici in una campagna elettorale giocata dalla destra all’attacco sul “Partito di Bibbiano”: Salvini aveva scelto di chiudere la campagna a Bibbiano, in quell’occasione Mescolini e la sua procura erano baluardi della legge che non aveva timore di nessuno. Ma nella profonda provincia emiliana nulla è eterno e nulla è come sembra.

«Qui è più difficile contrastare il potere mafioso rispetto al sud, bianco e nero si mischiano», fu una delle prime constatazioni di Alfonso da procuratore capo di Bologna. Confondere, la parola chiave per decifrare il caso Mescolini.

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