Dal 21 luglio 2001 la vita di Mark Covell è cambiata. Quel giorno di vent’anni fa, era un giornalista inviato al G8 di Genova. Mentre era davanti alla Diaz, la polizia lo pestò, riducendolo in fin di vita. Un ventennio non è bastato per ottenere giustizia. Ha avuto un risarcimento ma il procedimento per tentato omicidio è stato archiviato. Come ha rilevato la Corte di Strasburgo, la polizia si è rifiutata di collaborare con la magistratura.

«Mi chiede se dopo vent’anni ho ottenuto giustizia, dalla politica e dai tribunali. La risposta è no. Soprattutto la politica, continua a non rispondere dei fatti del 2001».

Cominciamo da quel sabato 21 luglio 2001. Cosa ricorda del suo pestaggio davanti alla scuola Diaz di Genova?

Che cercai di sopravvivere. Ero davanti alla Diaz Pertini, stavo andando alla scuola Pascoli. La polizia mi circondò, io urlavo «stampa!». Ero un giornalista professionista del Regno Unito che lavorava per Indymedia. In inglese un poliziotto mi disse: «Tu non sei un giornalista, ma un black bloc, e noi ammazzeremo i black bloc». Poliziotti con gli scudi mi colpirono più e più volte, mi spinsero verso il muro di cinta della Pertini, provai a fuggire ma non c’era modo. Arrivarono le manganellate, fino a ridurmi a terra. Un poliziotto mi colpì alla spina dorsale, mi tirò calci. Altri poliziotti si unirono nel picchiarmi. Loro ridevano, io mi sentivo un pallone da calcio. Arrivò un altro poliziotto e mi colpì in faccia, i denti cadevano, persi conoscenza; finii in coma. Ora si sa che fui lasciato sul selciato nell’indifferenza fino all’arrivo di un’ambulanza. Anche nei giorni seguenti, fu una lotta per rimanere vivo.

Si riferisce alle sue condizioni di salute?

Non soltanto. Ero ricoverato all’ospedale San Martino ma la polizia provò a portarmi a Bolzaneto. Erano spaventati che sopravvivessi e testimoniassi contro di loro. Se davvero fossi finito a Bolzaneto, non ne sarei uscito vivo. Sarei finito sotto le “cure” di Giacomo Toccafondi, il dottore della caserma diventato noto come “il medico torturatore”. Nell’immediato fu un dottore dell’ospedale San Martino a salvarmi la vita: pretese che restassi da loro. Poi fu la giustizia a ordinare il mio rilascio; il 4 agosto sono potuto tornare nel Regno Unito.

Si è mai ripreso da quell’evento?

Sa, il mio corpo era frantumato; emorragia interna, costole rotte, ero letteralmente a pezzi. Ci ho messo nove mesi solo per riprendere a camminare. Sono vivo, posso tirare un sospiro di sollievo: avrei potuto essere un altro George Floyd. Ma quel 2001 è ancora con me tutti i giorni, mi ha stravolto la vita. Soffro tuttora di disturbo da stress post-traumatico. Sono stato attaccato prima fisicamente, poi con una propaganda per screditarmi: ero una vittima innocente, e mi descrivevano come terrorista. Ho rischiato fino a venti anni di carcere – io, un giornalista – per delle molotov che, come siamo riusciti a dimostrare, erano state piazzate alla Diaz dai poliziotti stessi. Ma venivano utilizzate come prova contro la società civile che quella sera era alla scuola. Mi ci sono voluti ben undici anni e molto impegno soltanto per pulire il mio nome dal fango.

Cosa fa nella vita ora?

Aggiusto biciclette. Dopo gli eventi del G8 non trovavo altri lavori e quindi continuai come editor internazionale di Indymedia. L’ultimo evento di cui mi sono occupato è stata la conferenza Onu sul clima di Copenhagen: dopo, nel 2010, ho dovuto mollare i miei impegni di giornalista e spostarmi in Italia per seguire da vicino le ultime fasi del processo.

Ha ottenuto giustizia?

Sul massacro della Diaz un po’ di giustizia l’abbiamo ottenuta. Per esempio, abbiamo dimostrato che le due molotov che erano nella scuola erano state piazzate lì da alcuni poliziotti, e sono stati condannati per questo. Ma per tante, troppe cose importanti, tra le quali il mio tentato omicidio, la giustizia non c’è ancora. Poco meno di dieci anni fa, ho ottenuto un risarcimento. Ma il caso è stato archiviato, con la motivazione che gli autori del fatto sono ignoti.

Nessuno può dubitare che la polizia la abbia ridotta in fin di vita, ma non si sa chi lo ha fatto?

Il fatto è indubitabile e pure indubitato. Ma come ha sancito la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo quando ha condannato l’Italia, la polizia si è «impunemente rifiutata di collaborare con la magistratura». Perciò ci sono almeno sette poliziotti implicati che sono riusciti finora a sfuggire alla giustizia. Nomi che sgusciano via. Sfogliando la sentenza della corte d’appello di Genova del 2010, viene fuori che la corte si interroga sul ruolo di sette poliziotti che si trovavano molto vicini a dove ero io.

Il caso per lei è chiuso o sta cercando quei nomi?

Il caso per me non è chiuso: ci penso tutti i giorni e ho la speranza di riuscire a riaprirlo. Perciò anche qui, in questa intervista, lancio un appello a parlare, a testimoniare, a consegnare video. Sa perché nelle indagini sulla Diaz ero soprannominato “il fantasma”? Perché c’erano centinaia di poliziotti, una trentina di altri testimoni, vari video che portavano traccia del mio tentato omicidio, eppure solo due carabinieri riferirono di avermi visto al cancello della scuola. Questo silenzio è uno dei più controversi della storia recente. Vent’anni dopo, spero ad esempio che gli agenti delle forze dell’ordine, che non devono più nessuna lealtà a chi ha diretto l’operazione e che ormai non devono più sentirsi minacciati, possano darmi dettagli. Cerco testimoni anche fra i giornalisti: la Rai aveva la sua troupe sul posto. Sono riuscito a recuperare un nastro ma alcuni minuti utili per il mio caso non c’erano… Ma la mia battaglia per avere giustizia non si limita al mio caso; per esempio ho due proposte da lanciare.

Quali proposte?

Anzitutto, che finalmente l’Italia si doti di una independent police complaints commission, una commissione dove gli abusi della polizia possano essere pienamente portati alla luce; e questo vale non tanto per gli abusi che ci sono già stati, ma come lascito per il futuro. Poi vorrei che per il ventennale la scuola Diaz riaprisse le porte e diventasse il luogo della memoria collettiva: mi sto battendo per questo.

Come ha potuto la politica restare “irresponsabile” per la repressione del 2001?

Questa è forse la cosa più sbalorditiva: non solo la rarità delle scuse, ma soprattutto il fatto che si possa non rendere conto pienamente di quei fatti, ancora, dopo vent’anni. Mi sono interrogato molto ad esempio sul ruolo svolto in quelle vicende dall’allora vicepremier Gianfranco Fini, che rimane tuttora nebuloso e non chiarito; non mi pare che lui si sia sforzato di fare chiarezza sull’argomento. Eppure, il leader di Alleanza nazionale incontrò le forze dell’ordine anche non molte ore prima del blitz e si trovava a Genova in quei giorni del G8 in rappresentanza del governo.

L’Italia era responsabile della protezione e della sicurezza dei leader al vertice. Su quel G8 del 2001 pendeva la minaccia di Bin Laden e perciò ci fu un fitto scambio con la National Security Agency: bisognava proteggere George Bush. Ma su quegli scambi, quelle comunicazioni, non sono mai riuscito ad avere chiarezza: coinvolgono i servizi segreti americani, perciò è tutto tenuto coperto dal segreto, e lo rimarrà per almeno altri cento anni.

Che spiegazione si è dato per tutta quella violenza di stato del luglio 2001?

C’è ancora qualcosa che non torna, almeno per la Diaz. Fu un modo per colpire e abbattere i movimenti di sinistra e i gruppi anarchici? Questo c’entra coi fatti di Genova ma non basta a spiegare il blitz alla scuola, sul quale tuttora non sappiamo la piena verità. Una teoria è che la polizia volesse il raid per distruggere tutto il footage, il materiale video, raccolto da Indymedia in quei giorni. Il Mediacenter, come pure l’ufficio dei legali del social forum, si trovavano alla Diaz Pascoli. Qui la polizia è entrata, si è abbattuta contro i computer dei giornalisti e degli avvocati, ha sottratto hard disk, video, foto. Ha portato via possibili prove per quel che era successo prima. Ma poi, perché abbattersi contro studenti, assistenti sociali, ambientalisti, gente comune?

Gente comune. Lei è riuscito a riprendersi una vita normale?

Nel 2012, in piazza Alimonda, ho conosciuto Laura, ci siamo innamorati, è la mia compagna. Il suo amore mi ha salvato, ed è stato così che la città di Genova, dove per poco non ho perso la vita, me la ha in qualche modo restituita. Adesso posso dire di avere una famiglia, “una vita normale”. Ma purtroppo non è così: dopo quel giorno del 2001 non penso che potrò mai avere una vita normale.

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