«Il fine vita tocca a tutti, prima o poi. Ogni scelta va rispettata». Così Martina Oppelli, affetta da sclerosi multipla da oltre 25 anni, ha rivolto un appello alle istituzioni italiane prima di morire oggi in Svizzera, mediante il suicidio medicalmente assistito. Aveva 51 anni, era architetta, e da decenni conviveva con la malattia.

Negli ultimi tempi era completamente paralizzata. «Non ce la facevo più ad aspettare», ha detto nel suo ultimo video. In Italia, dove questo tipo di procedura è possibile in presenza delle condizioni dettate dalla Corte costituzionale, le sue richieste erano state respinte tre volte.

A rendere pubblica la notizia è stata l’associazione Luca Coscioni, che ha seguito il caso. Oppelli è stata accompagnata in Svizzera da Claudio Stellari e Matteo D’Angelo, due volontari di Soccorso Civile, il gruppo che affianca le persone nelle disobbedienze civili sul fine vita all’estero, di cui è rappresentante legale Marco Cappato.

Il vuoto della legge, tra sentenze e dinieghi sanitari

Nel 2019 la Corte costituzionale, con la sentenza Cappato/Antoniani, ha aperto alla possibilità del suicidio medicalmente assistito per chi si trova in condizioni di sofferenza irreversibile ed è tenuto in vita da trattamenti di sostegno. Ma in assenza di una legge nazionale, l’applicazione concreta resta affidata alla valutazione delle singole aziende sanitarie locali. Oppelli si era rivolta all’Asugi (Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina), che ha ritenuto che le sue condizioni non rientrassero nei criteri previsti, sostenendo che non fosse in corso alcun trattamento di sostegno vitale.

Una tesi contestata dall’associazione Coscioni, che sottolinea la completa dipendenza della donna da caregiver e da presidi medici, e ricorda che in Umbria, in condizioni analoghe, la richiesta di Laura Santi era stata accolta. Il nodo resta sempre lo stesso: in assenza di una legge, il diritto non è garantito in modo uniforme.

Dal video del 2024 all’ultimo messaggio

Martina Oppelli aveva scelto di rendere pubblica la sua storia già dopo i primi dinieghi. In un video del 2024, diffuso con l’associazione Coscioni, aveva detto: «Non chiamatelo suicidio, io non sono una suicida. È una scelta d’amore verso la vita che ho avuto. Si parla di eutanasia, di buona morte. Vorrei morire col sorriso, nel mio paese, dove ho scelto di vivere e di pagare le tasse». Aveva anche diffidato formalmente l’azienda sanitaria della sua regione.

Il 4 giugno 2025 era arrivato il terzo diniego. A quel punto ha deciso di partire. Il viaggio, spiega la nota dell’associazione, è stato «particolarmente doloroso», anche perché non lasciava Trieste da undici anni. «In questi ultimi due anni il mio corpo si è disgregato, io non ho più forza, nemmeno di parlare – ha raccontato poco prima di morire – Venire in Svizzera è stato uno sforzo titanico ma l’ho fatto per avere una fine dignitosa alla mia sofferenza».

Nel discorso pubblicato oggi, giovedì 31 luglio, Martina Oppelli ha voluto lanciare un monito all’attuale legislazione in Italia: «Perché dobbiamo andare all’estero, pagare, affrontare viaggi assurdi? Per piacere, io non voglio che questo iter si ripeta per altre persone. Anche noi abbiamo fatto di tutto per vivere, credetemi».

«Fate una legge che abbia senso», ha ribadito nel videomessaggio. «Che tenga conto di ogni dolore possibile. Che non discrimini nessuna situazione plausibile. Non potete farci aspettare due, tre anni per una risposta».

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