Quindici anni fa, alla sua presentazione, fece da spalla. Un po’ come fare da comparsa al proprio matrimonio. Fa anche abbastanza sorridere considerando che nella storia personale di Massimiliano Allegri, quella lontana dal calcio almeno, è proprio una vicenda pre-matrimoniale a perseguitare la sua memoria in ogni racconto biografico, anche minimo, una storia nella quale fu protagonista in contumacia.

Però quel 19 luglio del 2010 la sposa era Silvio Berlusconi. Chiamato a presentare Allegri come nuovo tecnico del Milan, lo mise a sedere alla sua destra (insomma alla destra del padre) e non lo fece neppure parlare.

Per davvero, perché tenne bordone per l’intera conferenza stampa, del resto mica era solo un presidente calcistico nel 2010, e così ne venne convocata un’altra il giorno dopo, senza più Berlusconi, per sentire com’era fatta la voce del primo Allegri chiamato ad allenare una grande.

Ieri

Eppure, in quella presentazione con il presidente ganassa a farla da padrone, tra una battuta e una barzelletta («la sapete quella del pappagallo?») fu nell’atteggiamento non verbale dell’allenatore che si poterono cogliere segnali piuttosto curiosi.
Berlusconi: «La missione è molto chiara, dobbiamo attaccare: non vogliamo vedere una punta sola là davanti, ma le punte sono due».

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Allegri scuote la testa, almeno abbozza il movimento. La faccia dice tutto. I giornalisti ridono.
Berlusconi: «Il Milan ha una missione sola che è quella di vincere, vincere in tutte le competizioni nelle quali è impegnato, e quindi per vincere bisogna scendere in campo la voglia e la determinazione di essere padroni del gioco e padroni del campo, quindi un Milan sempre offensivo di fronte a qualsiasi avversario».
L’espressione di Allegri è sorridente, ma il sorriso si stira sempre di più, che Jim Carrey scansati.
Berlusconi: «Le vittorie vogliamo conseguirle attraverso un gioco spettacolare, che faccia godere non solo i nostri tifosi, ma tutto il mondo del calcio». 

Allegri nemmeno lo inquadrano più. Tutto molto bello.

Al di là di una presentazione che non fu per lui, e di parole che appaiono paradossali considerando l’immagine che Allegri dopo ha proiettato su di sé e sul nostro calcio, c’è da dire che il tecnico livornese, allora, era davvero ritenuto un profeta del nuovo pallone. Veniva da due stagioni di salvezze in carrozza alla guida del Cagliari, suo primo club in A dopo aver portato in B il Sassuolo: aveva vinto la Panchina d’Oro per la sua prima annata in Sardegna.

Era considerato uno dei discepoli di Giovanni Galeone, tecnico cult negli anni Ottanta, quando la diatriba ideologica tra uomo e zona, tra sacchismo e trapattonismo, trovò in lui – allenatore di Allegri a Pescara, Perugia, Napoli e ancora in Abruzzo – un tecnico sui generis, diverso in campo e diverso fuori, spettacolare, affascinante come pochi, eterodosso il giusto.

Già: attaccare, attaccare, attaccare. «Quel Cagliari giocava molto bene. Il mister era alla sua prima esperienza in A – dice a Domani Daniele Conti, leggenda del club sardo, protagonista indiscusso di quelle due annate – e anche se perdemmo le prime cinque partite non eravamo troppo preoccupati: la squadra giocava e creava.

Quando alla sesta giornata pareggiammo proprio con il Milan, iniziò la nostra rincorsa. Allegri ci aveva trasmesso una grandissima serenità, anche quando le cose non andavano per il verso giusto, ed è uno che capisce molto bene il calcio». Anche Cellino, uno che di gran pazienza con gli allenatori non ne ha mai avuta, allora si fidò. Forse per l’unica volta. Non fece bene; fece benissimo.

Oggi

Andò al Milan e vinse subito lo scudetto. Veniva dal Cagliari del 4-3-3 fatto con Jeda, Matri e Acquafresca, trovò Robinho, Ibrahimovic e Boateng. Anche Ronaldinho, ma durò sino a dicembre. Iniziarono col 4-3-3, poi virarono su un’idea effettivamente più berlusconiana, tornando ai due attaccanti (Ibra e Robinho) supportati preferibilmente da Seedorf; si passava così dal cosiddetto 4-2-fantasia di Leonardo a una squadra tatticamente equilibrata, con centrocampisti muscolari, solidi, gente di pochi fronzoli.

Quell’Allegri cominciava a essere l’Allegri della maturità, l’allenatore che – scaricato dal Milan nel 2014 – si sarebbe trovato a diventare uno dei tecnici più vincenti della Juventus, con i cinque scudetti consecutivi, le Coppe Italia, le Supercoppe, le due finali di Champions. Con una grandissima squadra, almeno inizialmente, fornita di una mediana di alto livello (Pirlo, Marchisio, Vidal, Pogba) e investimenti anche su punte una migliore dell’altra, spesso giocatori di grinta e carattere, si pensi a Carlos Tévez o a quello che sarebbe diventato uno dei suoi pupilli, nonché idolo dei tifosi, Mario Mandzukic, centravanti diventato esterno mancino d’attacco, uomo ovunque di una squadra che ha fatto epoca per i trionfi basati su una difesa solidissima.

Già: difendere, difendere, difendere. Questo è diventato Allegri nell’immaginario collettivo, all’occaso della sua prima trionfale avventura in bianconero, e soprattutto nella seconda fase di quell’esperienza, il ritorno a casa, quando ormai la sua cifra era considerata pleistocene del pallone, nella contrapposizione creata dagli influencer del nuovo calcio con Sarri, De Zerbi, con chiunque in realtà).

«Ma Allegri è un uomo di personalità – ancora Daniele Conti – e sa che le chiacchiere stanno a zero. Che possa non piacere è nel gioco delle parti, ma lui sa di pallone e nei suoi confronti ho sentito troppe critiche poco sensate. Poi è un grande gestore di uomini, ed è un vincente».

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Domani

Ora, tarda primavera 2025, Allegri è stato annunciato per un altro ritorno, quello al Milan, undici anni dopo. Non ci sarà Berlusconi a fargli ombra, anzi forse non ci sarà proprio nessuno a fargli ombra, e magari il Milan, oltre a una normalizzazione dopo alcune annate senza capo né coda – l’ultima soprattutto – lo ha scelto proprio per quello, perché insomma serve qualcuno che sappia comunicare facendo da parafulmine.

Rispetto a quel 2010, Allegri è diventato un fuoriclasse: dal corto muso (strumentalizzato dai più, ma particolarmente immaginifico) alla ricerca di Rocchi, dal calcio che è «molto semplice» al gabbione di Livorno, «dove ci son quelli che vincono sempre e quelli che non vincono mai», e lui era tra quelli che vincevan sempre, chiaramente.

Più che un nietzschiano eterno ritorno dell’uguale, più che l’Allegri di allora, il Milan cerca probabilmente l’Allegri di oggi, ovvero una fenomenale arma di distrazione comunicativa; non il ricordo del suo scudetto, perché Max non è certo tra gli allenatori più vincenti e iconici del Milan – sebbene, dopo il suo titolo del 2011, l’unico a raggiungere il risultato sia stato solo Pioli – né è più avanguardia, figurarsi.

Ma non è neppure una comparsa, non può esserlo. Stiamone certi, stavolta, quando sarà il momento della presentazione parlerà lui, e si farà capire, a prescindere dal numero degli attaccanti.

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