A 50 anni dagli omicidi di mafia del pm Pietro Scaglione e dell'agente Antonino Lorusso, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deciso di ricordarli per tenere viva la memoria. «Il ricordo dell’impegno civile e dell’esemplare coerenza dimostrati da questi autentici servitori dello stato costituisce l’occasione per riaffermare l’impegno delle forze politiche e sociali nella difesa delle Istituzioni e dei cittadini dalla prevaricazione della delinquenza organizzata, le cui strategie minano la vita democratica del Paese. A distanza di cinquant’anni, desidero rinnovare i sentimenti di partecipazione e vicinanza del Paese ai loro familiari, ai colleghi e agli amici che li hanno conosciuti e stimati e che in questi lunghi anni ne hanno ricordato l’impegno a servizio della Repubblica», ha scritto il presidente in una nota. 

Il ricordo

«Magistrato integerrimo, dotato di eccezionali capacità professionali e di assoluto rigore civile, il dottor Scaglione si era occupato di indagini particolarmente delicate e complesse. La sua uccisione segnò l’inizio di una fase di efferata attività criminale volta alla sopraffazione e alla violenza», ha dichiarato il presidente.

Dopo l'ingresso in magistratura, nel 1928, nel corso della sua lunga carriera, Pietro Scaglione si occupò di stragi, omicidi, indagando sulla verità e assicurando i colpevoli alla giustizia. Si impegnò, inoltre, nella difesa dell'indipendenza dei magistrati dall'esecutivo. 

Dopo sei anni dalla strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1 maggio 1947, Scaglione, nel 1953, definì l’uccisione dei contadini come un delitto infame e riconobbe come principali moventi: la difesa del latifondo e dei latifondisti; la lotta contro il comunismo di Salvatore Giuliano; la volontà di usurpare i poteri della polizia per consegnarli allo stato. Una punizione per quei contadini ammazzati, che tenevano i banditi lontano dalle campagne. Nella requisitoria del 1956 sull’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale, il procuratore esaltò la figura della vittima, scrivendo che il sindacalista intimoriva coloro che avevano interesse a mantenere il sistema latifondista e il potere mafioso. 

Divenne procuratore capo a Palermo nel 1962. Il 30 giugno del 1963 fu, tra i primi, a recarsi a Ciaculli, dove una Giulietta Alfa Romeo, carica di esplosivo, aveva provocato la morte di sette agenti. Iniziò un'intensa attività investigativa, che portò alla dissoluzione della Commissione provinciale di Cosa Nostra, come riportato negli atti della commissione parlamentare antimafia e del maxi processo degli anni 80.

Quando tra il 1969 e il 1971, la mafia si fece di nuovo forte, Scaglione intensificò a sua volta la sua attività investigativa. Fu infatti riconosciuto «magistrato caduto vittima del dovere e della mafia» dal Consiglio superiore della magistratura.  

«L’uccisione di Pietro Scaglione, procuratore della repubblica di Palermo»,  affermò Giovanni Falcone, «aveva lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra, non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino».

Il 5 maggio 1971

La mattina del 5 maggio 1971, Pietro Scaglione si trovava a bordo di una Fiat 1500 nera, guidata dall'agente della sua scorta Antonino Lorusso. Stava percorrendo via dei Cipressi, a Palermo, quando venne bloccato da un'altra automobile da cui uscirono due o tre persone che fecero fuoco con pistole calibro 9 e 38 special, freddando all'istante Scaglione e Lorusso. 

Le prime indagini sul delitto si concentrarono sul boss Gerlando Alberti, che era stato visto a Palermo nei giorni dell'omicidio dal barista Vincenzo Guercio, confidente del capitano Giuseppe Russo, scomparso nel nulla qualche tempo dopo. La sparizione di Guercio porto alla redazione del Rapporto dei 114, a giugno del 1971. Tra i 114, denunciati nel rapporto, c'era anche il mafioso Benedetto La Cara, Il quale affermò che «Scaglione è stato ucciso da killer assoldati da alcuni deputati siciliani della Democrazia Cristiana e del Movimento sociale italiano, in combutta con un alto magistrato e alcune frange di carabinieri e poliziotti».

Nel 1984 il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta dichiarò al giudice Giovanni Falcone che Scaglione era «un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia» e il suo omicidio era stato organizzato ed eseguito da Luciano Leggio e dal suo vice, Salvatore Riina, con l'approvazione di Giuseppe Calò, capo del rione Danisinni, in cui avvenne il delitto, per danneggiare il loro avversario Gaetano Badalamenti, poiché il procuratore Scaglione voleva riesaminare la posizione processuale dei Rimi di Alcamo, parenti di Badalamenti.

Nel corso degli anni, altri collaboratori indicarono diversi colpevoli, facendo nomi e cognomi di boss e altri mafiosi. 

Tuttavia, a gennaio del 1991, il giudice istruttore di Genova Dino Di Mattei, che si occupava delle indagini, dichiarò che non si poteva procedere nei confronti dei presunti responsabili dell'omicidio del procuratore Scaglione – Gaetano Fidanzati, Gerlando Alberti, Salvatore Riina, Luciano Leggio, Pippo Calò, Francesco Scaglione, Pietro D'Accardio e Francesco Russo –  perché «non è stato possibile individuare nei confronti di questi imputati gli elementi convincenti di accusa, come per esempio il rinvenimento delle armi usate o testimonianze dirette, che giustifichino il passaggio alla fase dibattimentale».

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