«Daremo la caccia ai trafficanti ovunque nel mondo», ha detto Giorgia Meloni durante la gita del Consiglio dei ministri a Cutro, a pochi chilometri dal luogo del naufragio in cui hanno perso la vita 73 persone, venti nella fascia d’età compresa tra 0 e 12 anni. Le parole più usate, assemblate in slogan, dalla presidente e dai suoi ministri sono state anche le più scontate per chi rappresenta la destra estrema del paese: «Fermare le partenze e i trafficanti di uomini».

Sul blocco delle partenze, desiderio di ogni buon nazionalista, c’è poco da dire se non che è irrealizzabile: gli esseri umani in condizioni di povertà, abusate o in fuga da carestie e guerre sono disposti ad affrontare qualunque rischio pur di trovare condizioni di vita più dignitose.

Prendere atto di questo sarebbe già un passo avanti e aiuterebbe a trovare soluzioni per organizzare viaggi sicuri: per esempio allestire centri gestiti dalle organizzazioni europee o legate all’Onu e smantellare quelli esistenti, primo passo per la creazione di corridoi umanitari che valgano anche per chi non scappa da guerre ma solo dalla miseria.

Sul contrasto alla mafia dei traffici di esseri umani i margini di manovra sono notevoli. In realtà l’Italia paga lautamente la Libia per farlo, ma con risultati scarsi, pessimi, anzi ridicoli. Perché il contrasto alle organizzazioni criminali internazionali che guadagnano sulla disperazione di donne, bambini e uomini non può fondarsi sulla caccia allo scafista di turno.

Lo scafista è un concetto ancora molto in voga, è il corpo visibile di un sistema spesso invisibile per le coperture politiche e militari di cui gode in Libia come in Turchia. Scafista arrestato, è uno dei titoli giornalistici tra i più abusati.

Eppure la verità è un’altra: chi guida la barca carica di migranti è costretto a farlo, oppure ha avuto qualcosa in cambio, per esempio uno sconto sul viaggio, ma da un decennio ormai quello che è definito scafista altro non è che un migrante messo lì dai boss del traffico e scelto poco prima della partenza. Sono i numeri a dirlo, le storie, le testimonianze, i processi svolti anche in Italia.

Soldi a perdere

Libia e Turchia con i milioni e i miliardi incassati dai trattati di collaborazione avrebbero dovuto smantellare ogni cellula di trafficanti e arrestare i padrini del traffico di esseri umani. Così non è stato: la stragrande maggioranza delle operazione di sistema contro i clan libici e turchi è stata fatta dalle procure antimafia italiane, indagini avviate dopo gli sbarchi grazie alle testimonianze strazianti dei migranti: riferiscono di torture, pestaggi, stupri, mostrano video in cui vengono vessati e ricattati per avere i soldi dalle famiglie che attendono nei paesi di origine. Nel caso della Libia, l’ultima missione è stata rifinanziata con oltre 11 milioni di euro.

Un milione in più rispetto all’anno precedente. Questa missione, frutto dell’accordo bilaterale voluto dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, prevede denaro a pioggia per formare la guardia costiera libica così da renderla autonoma nel blocco delle partenze o quantomeno fornirle gli strumenti per intercettare il prima possibile le barche salpate dalle coste libiche.

Questo si è tradotto in respingimenti illegali, vietati dai regolamenti internazionali: non è possibile riportare le persone in un posto che non sia sicuro, con le milizie armate, conflitti a fuoco, centri di detenzione in cui avvengono orrori di ogni tipo. Ma poco importa, evidentemente, ai nostri governi: la missione continua a essere foraggiata e i libici hanno ottenuto navi per il pattugliamento delle coste, mezzi terrestri, un team di finanzieri dedicato alla loro formazione.

Tra le attività che dovrebbero però fare c’è la lotta ai trafficanti, quelli veri, non gli scafisti improvvisati. Basta leggere l’archivio del quotidiano Libya Observer per accorgersi che le retate di questo genere negli ultimi tre anni sono meno di cinque.

Molte di più sono le missioni, quotidiane, di intercettazione dei barchini carichi di migranti. Il dato dell’Organizzazione mondiale per l’immigrazione sui respingimenti è di quasi 2mila migranti riportati in Libia dall’inizio del 2023, è scritto in uno degli articoli del giornale libico. Un altro articolo titola: «23mila migranti intercettati dalla guardia costiera libica nel 2022».

Trovare operazioni contro le milizie del traffico di esseri umani è invece più complicato. La ricerca richiede tempo. Dal 2021 ne abbiamo contate quattro. Ma non c’è una retata in cui sono stati presi i padrini, i capi dei capi.

In un resoconto di cronaca si parla di una sparatoria tra polizia e trafficanti, alla fine questi ultimi sono riusciti a fuggire. A questo va aggiunto che uno dei comandanti della guardia costiera era indicato dall’Europa come uno dei capi dell’organizzazione criminale, conosciuto con il nome di Bija. Arrestato, ora è di nuovo libero e in attività con il governo.

In Turchia l’organizzazione che usa la rotta jonica, colpevole del naufragio del 26 febbraio a Steccato di Cutro, è attiva da anni. Esistono informative della polizia italiana in cui si descrive l’operatività di questi gruppi che risalgono al 2015. Già allora i porti indicati erano gli stessi usati oggi. Il governo turco al pari di quello libico non ha ottenuto grandi successi in tema di lotta ai trafficanti.

Scafisti per necessità

Dopo il naufragio di Steccato di Cutro sono stati arrestati su richiesta della procura di Crotone quattro presunti scafisti, due turchi e due pakistani, uno dei quali minorenne. Su due di loro sono già emerse prove che potrebbero scagionarli. Khalid Arlslan, 25 anni, giura di non essere dell’organizzazione. E ha portato all’attenzione dei pm messaggi e ricevute del pagamento del viaggio. In un messaggio dialoga con il padre in Pakistan per autorizzare la seconda tranche di denaro destinata ai veri trafficanti. Di storie così ce n’è sono moltissime.

Secondo un report dello scorso anno realizzato da Arci Porco Rosso, Alarm Phone e Borderline Sicilia, dal 2013 al 2022 sono stati aperti 2.500 procedimenti «nei confronti di persone accusate di avere condotto le imbarcazioni con a bordo migranti». Nel rapporto sono citate diverse testimonianze raccolte anche dagli atti dei processi. A. è un ragazzo senegalese cui i libici gli hanno offerto al possibilità di condurre la barca nel mediterraneo: «I libici lo istruirono brevemente sulle modalità di conduzione dei natanti facendogli anche fare dei giri di prova».

In uno dei processi finiti con molte assoluzioni nei confronti di presunti scafisti il poliziotto, un vice questore, Carmine Mosca durante la sua testimonianza ha detto: «Li imbarcano su natanti che possono essere di gomma e addestrano in maniera improvvisata alcuni migranti a condurre il natante. Li conducono fino al confine delle acque internazionali, perché evidentemente esiste una forte complicità con gli organi di controllo libici, e poi li abbandonano al loro destino». In questo senso c’è una testimonianza di Buba Dumba, un ragazzino all’epoca, che nel 2016 era stato arrestato perché sospettato di essere lo scafista. I criminali libici lo avevano costretto a guidare il gommone.

Sulla spiaggia dove Buba ha atteso la partenza con altri quasi mille migranti, l’hanno persino intimidito con un’arma: «Sono stato schiaffeggiato. Uno dei libici ha tirato fuori anche la pistola dicendomi che se non avessi condotto la barca sarebbero morti tutti e la responsabilità sarebbe stata mia», ha raccontato.

Propaganda

Foto Antonino Durso/LaPresse

Ecco, dunque, perché si tratta di pura propaganda quella del governo quando prospetta una guerra ai trafficanti confondendoli con gli scafisti. L’aumento delle pene è inutile, perché colpisce quando va bene l’ultimo anello della catena, quando va peggio ragazzi innocenti costretti diventare scafisti per necessità.

L’unico modo per contrastare davvero le organizzazioni di trafficanti, che spesso sono le stesse con cui le nostre mafia collaborano per lo smercio mondiale di droga, è quella di istituire delle squadre investigative europee, miste, con la possibilità di indagare sui territori libici e turchi. Le autorità di questi paesi hanno dimostrato che non sono in grado di farlo, per diversi motivi, il primo: la corruzione dilagante e i rapporti indicibili con le milizie a capo del business. Le procure antimafia italiane con le specializzazioni investigative, invece, potrebbero allargare lo spettro di indagini che per ora si fermano a chi conduce la barca.

Quando è accaduto che i pm si trovassero di fronte a una possibilità di individuare tutta la gerarchia, non è stato possibile andare avanti, perché non è possibile indagare e arrestare in un paese straniero. In pratica se il governo volesse andare oltre gli slogan, la semplificazione e la propaganda, dovrebbe proporre all’Europa uno schema nuovo. Attaccare il sistema del traffico nei luoghi in cui questo prospera. Ma per farlo non può fidarsi dei libici, nonostante i milioni che dal 2017 i governi italiani gli danno con lo scopo anche di combattere i trafficanti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

  

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