Scusi, può aggiungere un po’ di sugo?», l’inserviente svuota di malavoglia una cucchiaiata di quello che sembra essere ragù allungato con l’acqua sulla pasta pallida e appiccicaticcia di una ragazza che afferra il piatto delusa.

Forse si pente di non aver chiesto anche il parmigiano, ma ha già fatto scivolare il vassoio verso destra, impaurita dal ritmo serrato della processione. Siamo in una mensa universitaria all’ora di punta, tra lavoratori sottopagati, cibo mal conservato, scarsa igiene nelle cucine e sprechi alimentari.

Ai primi già servono i prossimi, qualcuno si spazientisce per l’indecisione di chi riflette troppo sulla scelta tra ragù e sugo panna e piselli. Si passa ai secondi: «Arrosto e fagiolini, grazie». La ragazza riempie il bicchiere di plastica con dell’acqua gasata al distributore, afferra la banana ammaccata e lo yogurt ai mirtilli, sosta per un attimo con aria spaesata fra i tavoli sovraffollati e adocchia un buchetto in fondo a destra, vicino ai carrelli per i vassoi vuoti. Siede tra due professori e un ragazzo occhialuto che mentre taglia il merluzzo impanato legge quello che sembra essere un trattato di metafisica.

C’è l’andirivieni dei formicai e la luce lugubre dei neon, quel grigiore dei luoghi interrati, i vapori che riempiono l’ambiente di un odore che sinteticamente si potrebbe dire di minestrone. La pasta è scotta, l’arrosto secco, i fagiolini acquosi: niente di nuovo sul fronte dei pranzi universitari. Alle pareti, adesivi decorativi con corsivi sulla gioia di sedersi insieme attorno a una tavola.

Di recente la mensa è stata ristrutturata: c’è l’angolo del poke, ultima delle mode milanesi ad essere già passata di moda, la stazione della pizza, la grigliata argentina. Il poke è più simile a un’insalata di riso con qualche ritaglio di salmone affumicato, a guarnire un’indecifrabile salsa bianca, si direbbe allo yogurt (sarà una rivisitazione turca?), la pizza è rigidina (ma come ogni pizza si fa mangiare comunque), la carne troppo cotta (ma ci si accontenta).

La nascita delle mense

Le intenzioni, bisogna ammettere, tutto sommato sono buone. Ma la resa è mediocre, il tentativo di smorzare lo squallore è goffo. Forse è tutto un modo per farsi chiamare “ristorante universitario”, che da qualche anno “mensa” sembra diventato un termine svilente: ricorda i collegi del secolo scorso. Giovanni De Silvestro ha settant’anni e ha frequentato le scuole medie al collegio dei dehoniani a Trento.

Correva l’anno 1964 e il cibo sembrava essere studiato per l’espiazione dei peccati. «Era la fiera delle minestrine annacquate. Mi inventai che soffrivo di una strana malattia, con tanto di certificato medico che mi ordinava di mangiare doppia bistecca e bere un bicchiere di vino al giorno per rinvigorire il fisico. I preti se la bevvero e io mi sono bevuto un bicchiere di rosso al giorno per tutta la durata della terza media, con l’invidia degli altri scolaretti».

In Italia le mense scolastiche nascono alla fine dell’Ottocento come servizio assistenziale per il sostegno a situazioni diffuse di difficoltà economica e insufficienza alimentare.

Negli anni Settanta, con il trasferimento delle competenze sociali ai comuni, abbandonano la natura assistenziale e diventano un servizio pubblico legato al diritto allo studio.

Povertà alimentare

Nonostante ciò, secondo un rapporto di Save the Children, il 48 per cento degli studenti delle scuole primarie e secondarie non ha accesso alla mensa – con un picco dell’80 per cento in Sicilia e la Puglia poco lontano – perché le famiglie non riescono a coprire la rata che in media si aggira intorno agli 80 euro al mese per figlio, toccando picchi di 100 euro in molte città del nord e arrivando addirittura ai 128 euro degli asili nido italiani dove il servizio mensa è più dispendioso. Il costo crescente dei servizi e i timori per una gestione poco attenta rispetto alla qualità del cibo e all’igiene dei luoghi in cui questo viene preparato ha portato molte famiglie a optare per il pasto da casa, scelta che finisce per acuire le disuguaglianze.

Le mense scolastiche e universitarie dovrebbero essere uno strumento per combattere la povertà alimentare, non un privilegio. In Italia un bambino su dieci soffre di privazioni alimentari. Quando si prendono in esame le famiglie numerose la percentuale raddoppia. Povertà alimentare significa non potersi permettere un pasto di carne o pesce ogni due giorni (criterio che oggi appare vecchio, o su cui quanto meno si avrebbe da discutere).

La ristorazione collettiva pubblica in Italia – mense nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri e in altre pubbliche amministrazioni – non è un settore economico marginale. Secondo i dati dell’Osservatorio sulla ristorazione collettiva e nutrizione (Oricon), prima della pandemia il suo fatturato complessivo era di circa 6,2 miliardi di euro, con 95mila lavoratori coinvolti e un migliaio di imprese.

Per quanto riguarda la sola ristorazione scolastica si stimano due milioni e 700mila pasti serviti al giorno. Ogni studente, nel ciclo della scuola dell’obbligo, consuma in media duemila pasti (duemila piatti di pasta scotta?) a cui si aggiungono quelli accumulati nei cinque anni di università per chi prosegue gli studi e si affida alla mensa. Questi dati dimostrano che intervenire nel settore della ristorazione pubblica significa potenzialmente agire su larga scala, per esempio per generare fin dai primi anni di vita una certa sensibilità per la sostenibilità del cibo, il consumo di prossimità e la riduzione degli sprechi o per accrescere la cultura alimentare e l’abitudine a una dieta sana ed equilibrata.

A vigilare che si rispettino le norme igienico-sanitarie sono i Nas, mentre le cosiddette “commissioni mensa” sono l’organo di rappresentanza che ha il compito di monitorare l’accettabilità del pasto, il gradimento e la qualità delle materie prime attraverso specifiche schede di valutazione. Ma non è solo vigilando a posteriori che si ottiene un miglioramento, è necessario lavorare sulle intenzioni di partenza ripensando la mensa come un luogo che rispetti l’ambiente, i consumatori, i lavoratori. E poi, forse prima di tutto, una mensa democratica: un posto dove si mangia bene e si mangia insieme. Nessuno escluso.

Sprechi enormi

Illustrazione di Manfredi Ciminale

La realtà è però ancora molto diversa. Grave la questione degli sprechi: il cibo sprecato giornalmente varia dal 10 per cento al 30 per cento. Di questo solo una piccolissima parte, circa l’11 per cento, verrebbe recuperata. Solo un bambino su dieci mangia tutto ciò che gli viene servito e secondo il settimo rating di Foodinsider, pubblicato a giugno, il 47 per cento dei bambini mangia meno della metà del pasto.

Per dare via il cibo avanzato in cucina ci sono delle regole ben precise. Il trasporto degli avanzi deve essere autorizzato, fatto entro un range di tempo e a una determinata temperatura per non perdere la catena del caldo e del freddo. «Piuttosto che seguire tutte queste procedure ciò che avanza va quasi sempre a finire nella pattumiera» racconta Marina (nome di fantasia), che da più di vent’anni lavora nelle mense scolastiche.

«Nelle cucine si dovrebbero seguire le indicazioni delle grammature degli alimenti che sono tarate sul fabbisogno di una persona dagli 0 ai 99 anni. Il problema è che in molti posti si fanno le cose senza un criterio, alla bell’e meglio. Un po’ per pigrizia, un po’ per noncuranza. Bisognava fare una pasta e fagioli? Per 100 grammi di pasta cucinavano quattro o cinque kg di legumi. Non si rispettavano le proporzioni, e così molto del cucinato andava buttato».

Un altro problema legato allo spreco alimentare, peggiorato a causa delle misure restrittive introdotte nelle mense scolastiche in questi ultimi due anni, è la consegna del cibo in piatti già pronti con porzioni uguali per tutti, piuttosto che porzioni tarate in base alla richiesta dei bambini. Lo spreco quotidiano nelle scuole, in termini economici, ammonta a 360mila euro. Cibo acquistato e pagato dagli istituti e puntualmente finito nella spazzatura. I margini di risparmio sarebbero altissimi.

Scarsa igiene

Ma i problemi sorgono anche nella fase precedente, ovvero quando il cibo arriva alle cucine, dove non sono pochi i malfunzionamenti per quanto riguarda la conservazione degli alimenti e l’igiene.

Le persone che lavorano in cucina sono tenute a seguire un corso https://www.foodinsider.it/ecco-il-7-rating-dei-menu/ (Hazard analysis and critical control points) base, della durata di quattro ore. Molto poco per tutte le accortezze necessarie al trattamento degli alimenti e il numero di procedure da imparare. Marina racconta di aver lavorato in mense in cui la carne veniva cucinata cinque giorni prima che si dovesse consumare. O peggio ancora: si cucinava il riso, si consumava una porzione solo per chi aveva bisogno di mangiare in bianco e la teglia con il riso rimanente veniva messa nell’abbattitore a -18 gradi per il ciclo di congelamento. Il giorno dopo il riso veniva rinvenuto nel forno a vapore, di nuovo si consumavano un paio di porzioni e l’avanzo veniva nuovamente abbattuto. E così via. Abbattimento e rinvenimento, lessico quasi guerresco che farebbe sorridere non fosse che questo procedimento va contro ogni indicazione per il corretto trattamento degli alimenti.

«Vogliamo parlare dei sughi? Si mettevano dentro pomodori anche ammuffiti per non sprecarli. E poi si tradiva qualsiasi regola Haccp sprecando molto di più».

Un’altra pratica anti spreco che può rivelarsi pericolosa riguarda la data entro cui il cibo aperto deve essere consumato: su ogni confezione aperta bisogna apporre la data di apertura e la conseguente data di scadenza ma non è raro che si allunghi la vita di alimenti cambiando semplicemente l’etichetta. Una, due, tre volte. «E poi si meravigliano che la gente lamenti mal di pancia o intossicazione» continua Marina.

A proposito di salute, criticità si registrano anche nella formulazione dei menù: ridondanza di carboidrati (pasta, pane e patate in uno stesso pasto) o eccesso di carni ultraprocessate. Piatti ripetitivi o tipo fast food per facilitare il servizio e infine porzioni di verdure poco consistenti.

Lavoro precario

Dal punto di vista delle condizioni lavorative, quello delle mense sembra essere un settore segnato da salari bassi e precarietà. Nel 2021 i lavoratori di Milano Ristorazione, la società partecipata al 99 per cento dal comune di Milano che si occupa di preparare e distribuire i pasti per gran parte delle mense scolastiche della città, si sono uniti in un presidio davanti alla sede dell’azienda per chiedere contratti più equi, stabilizzazione dei precari e scatti salariali, fermi al 2012, e denunciando contratti a chiamata per appena due o tre ore al giorno con compensi del tutto inadeguati oltre che mancati pagamenti degli straordinari. A scioperare l’ottobre scorso anche i lavoratori della Ladisa, azienda che si occupa di ristorazione collettiva prevalentemente in Lazio, denunciando la mancata sostituzione dei lavoratori assenti con conseguente mole di lavoro insostenibile e, anche qui, mancato riconoscimento delle ore supplementari.

«Parliamoci chiaro: una cuoca che prende 8,50 euro lordi all’ora deve già ritenersi fortunata», afferma Marina. «Per 38 ore forse arrivi a prendere 1.300 euro ma il lavoro che c’è dietro è massacrante. In tante cucine non devi solo cucinare, devi anche pulire l’intera struttura, lavare i piatti, la cappa, i vetri, le mattonelle, i secchi dell’immondizia, le celle, i congelatori». Si tratta quindi di un lavoro sottopagato e spesso precario. I vecchi contratti firmati con le cooperative appaltanti che gestiscono le mense scolastiche prevedevano un contratto a tempo determinato da settembre a giugno, con la possibilità di richiedere la disoccupazione durante l’estate. Quelli nuovi prevedono invece un indeterminato in cui però da giugno a settembre scatta l’interruzione estiva: significa che al lavoratore non viene pagato né il salario né i contributi e non può nemmeno chiedere la disoccupazione.

Un’altra pratica segnalata dalle lavoratrici e dai lavoratori del settore è quella della “restituzione delle ore”. In sostanza, le ore non lavorate durante i giorni di chiusura delle scuole devono essere recuperate durante l’anno estendendo il turno e occupandosi di mansioni straordinarie.

Diritto universale

Non stupisce che nelle mense si respiri spesso quell’aria di squallore da cui siamo partiti, una certa noncuranza per ciò che il cibo rappresenta o potrebbe rappresentare: un rito collettivo, un momento di incontro e di piacere, oltre che nutrimento e recupero di energie per affrontare ciò che resta della giornata. Ecco perché i governi di molti paesi hanno cominciato a considerare il pasto come un aspetto fondamentale della vita e dell’educazione degli studenti, investendo somme anche ingenti per garantirne la gratuità e la qualità. D’altronde, se ci sembra normale che i pasti siano gratuiti negli ospedali, essendo legati al diritto a ricevere assistenza e cure sanitarie, allo stesso modo il diritto all’alimentazione potrebbe essere parte integrante del diritto allo studio, che fino ai sedici anni è anche un obbligo. Ragionare in termini di mensa gratuita significa compiere una scelta politica importante a favore delle famiglie e dell’equità, percorso già intrapreso da paesi come la Finlandia, la Svezia, la Gran Bretagna (per le prime due classi della scuola elementare), l’India e il Brasile.

Nel frattempo, la ragazza con il vassoio ha finito di mangiare. Getta un occhio intorno a sé. Anche se non sa che i lavoratori che le hanno servito il pasto probabilmente sono precari e sottopagati, l’igiene nelle cucine scarsa, il cucinato avanzato gettato nell’immondizia, qualcosa nell’aria sembra rimandare a una qualche desolazione. O forse era solo la pasta scotta e i fagiolini senza sale.

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