Se non trovate lavoratori, pagateli di più, sussurrava Joe Biden alcune settimane fa. Tuttavia sembra che ci sia – almeno in Italia – un settore professionale per cui questo discorso valga meno di altri: l’architettura. Un po’ perché c’è tantissima domanda, l’Italia da sola infatti ha quasi un terzo di tutti gli architetti del continente europeo, quasi 3 ogni mille abitanti. E un po’ perché la stragrande maggioranza degli studi in Italia ha fatto della subordinazione contrattuale un meccanismo consolidato e accettato anche da coloro i quali finiscono inevitabilmente per subirlo.

Domani ha raccolto le testimonianza di architetti che hanno maturato anni di esperienze in studi internazionali ma che non sono mai stati assunti, di professionisti che guadagnano massimo 2.000 euro in partita Iva e a cui durante la pandemia è stato chiesto di tagliarsi lo stipendio anche del 40 per cento, e che non hanno idea se possono permettersi di fare il ponte del primo maggio o la settimana di ferragosto perché «abbiamo paura di perdere il posto». E quella di architetti neolaureati che non possono pensare di poter vivere del lavoro che hanno scelto di fare, perché gli studi offrono stage con stipendi miseri a fronte di una disponibilità totale confondendo formazione e sfruttamento. E trasformando il lavoro di molti in un calvario davanti al quale c’è chi si tira indietro perché «dopo un po’ non senti altro che frustrazione, smetti di imparare, non hai più tempo, una vita».

La saturazione del mercato è una delle cause più ascritte a motivazione di questa precarietà. Tuttavia è proprio su questo passaggio che è necessario porsi un paio di domande in più, perché ridurre lo stato della crisi di questo mestiere in Italia solamente a indicatori economici può far perdere di vista problemi un po’ più urgenti. Come ha detto Guido Morpurgo, architetto e professore all’università di Venezia, «c’è da chiedersi se la crisi di un certo modo di produrre architettura», al di fuori della mera logica imprenditoriale o autoriale, «non derivi pure e soprattutto da ragioni interne di contenuto, di finalità e quindi anche di cultura».

Il contesto della pandemia

Gli ultimi dati disponibili risalgono al 2014 da un ricerca condotta da Cresme e mostrano chiaramente come già allora non fosse facile. Il 47 per cento degli architetti svolgeva la professione come titolare del proprio studio, mentre il 13 per cento era freelance e solo il 4 per cento era effettivamente dipendente. E non è cambiato molto, visto che «gli studi continuano a non assumere» dice Florencia Andreola, architetta e ricercatrice indipendente. Insomma il modello della libera professione è considerato lo standard, anche per il tipo di lavoro svolto: su commissione e che varia da progetto a progetto. Per questo motivo gli studi assumono a seconda della mole di lavoro che c’è da gestire minimizzando di conseguenza eventuali crisi. «Nessuno lo dice chiaramente, ma a partire dal 2008 il fantomatico rischio d’impresa degli studi di architettura è stato accantonato in cambio della precarizzazione di quasi tutti i lavoratori». Lo si vede chiaramente dai fatturati degli studi che oltre a essere pubblici e consultabili dimostrano come molte delle conseguenze economiche generate da questa pandemia siano state scaricate sui dipendenti, ma non solo. «La cosa più sorprendente è che spesso sono proprio gli studi in cima alle graduatorie quelli più inclini allo sfruttamento dei collaboratori» spiega Andreola.

Lo conferma la testimonianza di una serie di architetti che lavorano o hanno lavorato presso alcuni di questi grandi studi per anni senza mai essere assunti nonostante fossero trattati come dipendenti. Una moltitudine di partite Iva pagate mensilmente non sulla base del monte ore che effettivamente lavorano, oltre le 200 ore mensili, ma piuttosto su un compenso forfettario stipulato con il titolare proprio in virtù della collaborazione.

«Molti di noi finiscono per guadagnare anche 3 euro l’ora se confrontati con il monte ore complessivo. E nonostante siamo collaboratori si pretende la completa disponibilità a lavorare sempre, pena il licenziamento. Lavoriamo tanto, lavoriamo male, senza soste e guadagniamo meno di impiegati non specializzati senza avere alcuna tutela. Sono in molti che lasciano per esaurimento, che a un certo punto non ce la fanno e mollano sperando di ottenere un lavoro migliore proprio in virtù dell’esperienza appena vissuta».

Un problema complesso

Secondo il presidente dell’ordine degli architetti di Milano, Paolo Mazzoleni, si tratta di un argomento molto complesso. «Gli studi infatti possono avvalersi di collaboratori iscritti all’ordine come stabilito dalla legge Biagi del 2003, che ha normato la collaborazione continuativa e monocommittente tra due professionisti iscritti ad un ordine professionale». Tuttavia il confine tra partita Iva e dipendente è molto sfumato, ed è ovvio che chi abusa di questo tipo di collaborazioni penalizza gli altri studi facendo della concorrenza sleale, abbattendo costi e rischio imprenditoriale. «Noi sappiamo come questo accada nell’ambiente dell’architettura milanese, tuttavia non siamo la magistratura inquirente, non possiamo fare indagini partendo da una denuncia anonima, abbiamo bisogno di un apposito esposto ma non ne riceviamo» spiega Mazzoleni facendo riferimento ai casi recentemente denunciati dalla pagina Instagram @Il_riordione_degli_architetti, che ha pubblicato sui social documenti interni degli studi di architettura Andrea Caputo e David Chipperfield.

«Più che un trend della categoria stiamo parlando di un certo tipo di cultura» commenta l’architetto e ricercatore Mauro Sullam. «Perché la verità è che i lavoratori dell’architettura sono i primi che decidono di essere sfruttati per 600 euro al mese a testa bassa, sono i primi a giustificare il mobbing dei capi perché comunque si tratta di formazione, me lo metto in curriculum e pace». E in questo senso la subordinazione non è solo un meccanismo consolidato, ma pure una categoria dello spirito da ascrivere al modo in cui titolari degli studi si rapportano con i collaboratori, ma anche al modo in cui i collaboratori decidono di accettare la propria condizione di sfruttati «perché la vedono come una possibile anticamera al proprio successo professionale» spiega Sullam «successo che porta molto spesso anche gli studi emergenti a replicare lo stesso sistema attingendo a piene mani al lavoro precario nella convinzione che sia l’unico modo di stare sul mercato». Nella crisi contrattuale degli architetti c’è tutto il dramma della classe media divisa tra la denuncia del sistema e la conservazione dello status quo. Nonostante siano anni che si discute la possibilità di riformare l’ordine degli architetti, e più in generale questo mercato del lavoro, un cambiamento non è mai avvenuto anche per l’opposizione degli stessi ordini. «Gran parte degli studi ha dimensioni piccole e non si può permettere di assumere gente» ribatteva già nel 2012 Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli Architetti, a chi voleva cambiare le cose. Tuttavia affermare una cosa del genere non evidenzia altro che lo scollamento creatosi tra gli ordini professionali e il mondo reale. Mondo in cui l’architettura ha evidentemente perso il proprio ruolo da anni, schiacciata dalla flessibilità delle committenze private e da nuovi ruoli manageriali come: project manager, cost controller, quantity surveyor, technical advisor, che hanno svuotato la professione di un proprio ruolo e di una propria identità.

Scriveva Guido Morpurgo alcuni anni fa: «Il ruolo dell’architetto nella società contemporanea può essere riguadagnato solo rivendicando l’attività pratica come azione culturale e politica». E in questo senso il ruolo dell’università italiana deve ritornare a essere decisivo, smettendo di mitizzare l’autorialità di studi che al massimo firmano le opere dei propri stagisti «e invece proporsi come luogo di ricongiunzione tra teoria e pratica, tra ricerca e progetto e, in ultima analisi, tra responsabilità e dimensione etica».

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