«Puoi segnare più punti di loro, non vincere», dice un vecchio adagio sul Galles, sul loro spirito, sul loro rugby. Anche adesso, quando le cose vanno male e loro sono ultimi, vicini a un cucchiaio di legno, troppe volte toccato agli azzurri. L’ultimo dei rossi che portano le Tre Piume è del 2003.

Il Super Sabato del 6 Nazioni inizia con Galles-Italia, prosegue con Irlanda-Scozia (ai verdi basterà poco per un bis nel Torneo) e chiude con Francia-Inghilterra: l’etichetta “Crunch” dà l’idea di ossa in pericolo, di tendini vicini al punto di rottura.

L’Italia di Gonzalo Quesada è sopraffatta dagli elogi: dopo il pareggio con la Francia (quel palo vibra ancora…), ha battuto la Scozia in rimonta dando vita a una mezz’ora memorabile, ha rivelato al mondo ovale la forza caparbia di Tommaso Menoncello, la capacità d’impatto e le accelerazioni sorprendenti di Ross Vintcent. Può finire quarta, come nel 2007 e nel 2013, ma con una serie di dati incoraggianti: le mete al passivo, 13, sono meno della metà del 2020, 34, e ha la chance è di allineare più punti di sempre a una serie di tre risultati utili di fila. Mai capitato.

Cardiff è un luogo di ricordi freschi e piacevoli: due anni fa l’intuizione di Ange Capuozzo (oggi fuori per infortunio), la sua serpentina quando il tempo si stava esaurendo, il suo assist a Edoardo Padovani costruirono in un lungo lampo la prima vittoria azzurra in uno dei luoghi storici, ammantati di sacralità, del rugby mondiale e posero fine a una catena dell’infelicità che andava ovanti da 36 partite. Nello stagno del 6 Nazioni, l’Italia era l’anatra zoppa, destinata allo spiedo. Evitato. 

Metti un giorno a Cardiff

Cardiff, città rugbycentrica: era così quando lo stadio era l’Arms Park, è così dal 1999 quando, per la Coppa del Mondo, nello stesso luogo è sorto il Millennium, ribattezzato Principality Stadium, lo Stadio del Principato, a un tiro di sasso dalla stazione: 74.500 spettatori e tetto che può esser chiuso. Sullo scorrere delle cerniere i gallesi non sempre sono d’accordo: in questo modo, dicono, «Dio non riesce ad assistere allo spettacolo» tenuto sul palcoscenico di una città che ha dedicato una statua a Gareth Edwards: è nel centro commerciale di St David Mall, è circondata da giacinti e asfodeli e il basettuto Gareth, palla nelle mani, sta per aprire il gioco. È un omaggio al suo stato di servizio e alla meta che nel vecchio stadio, con la maglia dei Barbarians, segnò agli All Blacks il 27 gennaio 1973. La meta più bella della storia, un caleidoscopio di passaggi.

Bbc Wales trasmette le partite del Galles con il commento in gallese: non si capisce niente, ma è bellissimo perché la lingua ha il fascino avvinghiato alle radici del tempo profondo. Come parlava Merlino? In gallese. Come gli rispondeva Artù? In gallese, anche se qualcuno sostiene che il sovrano fosse originario del nord della Cornovaglia, di fronte al Galles.

Il nome del paese non è Wales ma Cymru, l’inno è Land of My Fathers - composto nel 1856 da Evan James e da suo fratello e che i genitori con poca fantasia battezzarono James. È uno dei momenti più commoventi: quando si va in pellegrinaggio a Cardiff si finisce per spremere qualche lacrima. Vero titolo: Hen Wlad fy Nhadau. L’irruzione nel mondo del rugby è del 1905, quando Teddy Morgan coinvolse il pubblico dell’Arms Park, nel giorno della meta negata a Bobby Deans e della vittoria di Cymru sulla Nuova Zelanda. «Se quelli danzano l’haka, anche noi dobbiamo fare qualcosa», pensò il vecchio Teddy. La faccenda è passata agli annali: per la prima volta il pubblico di uno stadio cantò un inno. Nessun bisogno di prove: i gallesi sono bravi cantori.

I nomi gallesi sono un’apparente giungla di consonanti. Apparente, perché per loro y e w sono vocali. A volte, comunque, esagerano. Come si dice in gallese British and Irish Lions, la super selezione delle isole? Llewod Prydeinnig a Gwyddelig. Va meglio quando l’Italia va a Cardiff: Cymru-er Eidal. Quando si entra nell’area della capitale vi accorgerete di essere approdati a Caerdydd e se vi sposterete a est, troverete Casnewydd (Newport), a ovest Aberlawe (Swansea, luogo natale del più grande tra i poeti gallesi, Dylan Thomas, dal gomito sempre alzato) e a Pen y Bont ar Ogwr che è Bridgend. La leggenda ovale vuole che i meravigliosi gallesi della fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, quelli con le basette a cespuglio e il colletto rialzato, scambiassero schemi di gioco usando la loro lingua come una misteriosa sciarada.

Gli inglesi hanno provato ad anglicizzare, a cancellare questa lingua fiabesca e antichissima ma non ci sono riusciti. E così tra i giovani (e tra i giocatori) non è difficile trovare chi si chiama Iestin e non Justin, Evan e Ieaun e non John, Dafydd e non David, Anhun e non Anthony, Gwilyn e non William. A Carnarvon dove nel minaccioso castello affacciato sull’acqua viene incoronato il Principe di Galles (attualmente William, patrono del rugby gallese), l’86% della gente parla gallese. E così Cymru am Byth, Wales forever, Galles per sempre. Augurio da estendere anche a er Eidal, l’Italia.

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