«Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi». Tripoli 6 aprile 2021, primo viaggio all’estero del presidente del Consiglio Mario Draghi, poche righe per dare un messaggio chiaro all’Europa: la continuità con le politiche di esternalizzazione delle frontiere, la delega cioè alla Guardia costiera libica del controllo dei confini europei. Lo fa al fianco del primo ministro Abdelhamid Dbeibah a capo del governo libico di transizione, che ha l’ambizione di riportare la stabilità nel paese. Nel discorso di Draghi, tuttavia, la questione umanitaria non è preminente rispetto al blocco degli sbarchi. Al pari dei predecessori, a partire da chi ha permesso l’attuazione del Piano europeo di sostegno e finanziamento della Guardia costiera libica: il governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni con Marco Minniti ministro dell’Interno.

Il perno del sistema di controllo e respingimenti appaltato ai libici è la super agenzia europea Frontex, che poggia su una rete di comunicazione costata centinaia di milioni per garantire alla Guardia costiera il flusso di informazioni necessario a intercettare le barche cariche di migranti, che così vengono riportati in uno stato non sicuro, come denunciano le Nazioni Unite e le più autorevoli organizzazioni umanitarie.

Possibile che né la Commissione europea né il governo italiano siano al corrente delle violenze e della sospensione dello stato di diritto all’interno dei perimetri delle prigioni disseminate tra Tripoli e Zawyia? Amnesty International nel suo ultimo rapporto sui diritti umani nel mondo scrive: «La Guardia costiera libica ha intercettato 11.891 migranti. Migliaia di coloro che sono stati riportati in Libia sono stati detenuti a tempo indefinito nei centri amministrati dalla direzione per la lotta all’immigrazione illegale gestita dal ministero dell’Interno. Altri sono stati sottoposti a sparizione forzata dopo essere stati trasferiti in luoghi di detenzione non ufficiali, compresa la “Fabbrica del tabacco” di Tripoli, sotto il comando di una milizia affiliata al governo nazionale. Di loro non si è saputo più nulla».

Le prove degli abusi

In un documento agli atti di un’inchiesta sui trafficanti di uomini condotta dal magistrato di Palermo, Calogero Ferrara, c’è una testimonianza finora inedita sul sistema di corruzione, sbarchi e respingimenti. Il periodo a cui fa riferimento il testimone, interrogato una volta arrivato in Sicilia, si colloca tra il 2018 e il 2019. Cioè quando l’accordo Gentiloni-Minniti tra Italia e Libia era in vigore e il progetto europeo di esternalizzazione delle frontiere ormai rodato.

«La Guardia costiera libica salva le vite dai naufraghi riportando donne, bambini e uomini al punto di partenza». A questa narrazione istituzionale però si contrappone il vissuto delle vittime, che raccontano un’altra storia fatta di respingimenti e ricollocamenti in centri di detenzione infernali, lager dei nostri tempi.

Ecco cosa dice Rashid al magistrato: «La sera del 4 luglio 2018 riuscivo a imbarcarmi, insieme ad altri migranti, su una grande nave. Purtroppo venivamo subito intercettati dalla polizia libica che ci conduceva nuovamente a terra per poi imprigionarci a Zawyia, dove sono rimasto richiuso per 3 mesi e 2 settimane».

Zawyia è un famigerato penitenziario per immigrati. La sede è in una ex base militare ed è gestito da tale Ossama, legato al più noto “Bija”, figura sconosciuta finché un’inchiesta del giornalista di Avvenire, Nello Scavo, non ha svelato il suo viaggio in Italia e la presenza a un tavolo istituzionale con il ministero dell’Interno per parlare di migrazioni. Bija aveva partecipato in qualità di agente della Guardia costiera di Zawyia, nonostante fosse sospettato da anni di complicità con i trafficanti di esseri umani, ben felici di riportare i migranti alla base per torturarli e ricattarli una seconda volta.

Dalle testimonianze lette emerge che nel centro di Zawyia, dove sono stati spesso riportati i migranti intercettati dalla Guardia costiera libica, sono avvenute torture di ogni tipo: «Per bere utilizzavamo l’acqua dei bagni. Tutti noi migranti venivamo spesso picchiati, anche duramente. Un carceriere una volta ha sparato e colpito alle gambe di un nigeriano, colpevole di aver preso un pezzo di pane. Le donne venivano prelevate dai carcerieri per essere violentate. Da questa prigione si usciva solamente se si pagava il riscatto. Chi non pagava veniva ripetutamente picchiato e torturato». Un altro migrante ha raccontato: «Eravamo sempre vigilati da diversi uomini armati, dalla stanza in cui ero rinchiuso sentivo, giornalmente, colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata». Altri reclusi, poi arrivati in Sicilia, hanno rivelato ulteriori dettagli di torture medievali: appesi a testa in giù e picchiati con tubi e fucili.

Bianca Benvenuti è la responsabile affari umanitari di Medici senza frontiere, tornata di recente da una missione a Tripoli. «Nei primi mesi del 2021 la maggior parte dei migranti intercettati, 4mila (tra gennaio e oggi), dalle motovedette libiche sono stati rinchiusi nei centri di detenzione dell’area di Tripoli, controllati dal governo». Centri governativi, dunque sicuri? «Le storie raccolte sul campo confermano che anche nelle prigioni ufficiali la violenza è usata come strumento di gestione dell’ordine, e in concomitanza di tentativi di fuga ci sono picchi di abusi». Tra i luoghi in cui ha operato Medici senza frontiere c’è il centro di Al Mabani, zona Tripoli, «c’erano cinquecento persone a fronte di una capienza massima di cento». Questi luoghi gestiti da generali che fanno capo al ministero dell’Interno libico sono inaccessibili: «È una negoziazione quotidiana, e non sempre otteniamo il via libera per accedervi».

© Riproduzione riservata