I trafficanti di esseri umani hanno contatti ovunque. I testimoni che hanno vissuto nei lager libici riferiscono della presenza di militari, di prigioni confinanti con caserme dove c’erano uomini in divisa e carri armati. Altri hanno detto ai magistrati di essere stati venduti da intermediari che lavoravano per un’organizzazione delle Nazioni unite e hanno fatto i nomi dei capi che gestivano i centri di detenzione. Uno di loro è collegato al comandante Bija, il guardacoste, accusato proprio dall’Onu di essere «uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia», che nel 2017 ha partecipato a un incontro in Italia con una delegazione del ministero dell’Interno. I magistrati di Palermo proseguono le indagini e da quanto risulta a Domani avrebbero avviato alcune rogatorie per raccogliere le prove su questa rete di complicità.

Dietro le torture c’è infatti un sistema di connivenze istituzionali in uno stato dove regna il caos e le bande criminali si spartiscono donne, uomini e bambini come merce in un suk. Le ultime rivelazioni, raccontate da due ragazzi del Bangladesh, riferiscono di sistematiche brutalità: appesi a testa in giù e picchiati con tubi e armi. Violenze mostrate in diretta ai familiari chiamati con il telefonino per convincerli a pagare il riscatto.

I due testimoni, sentiti nell’ambito di un’inchiesta della procura di Palermo coordinata dal magistrato Calogero Ferrara, hanno raccontato anche di essere stati imbarcati a forza nonostante il mare agitato e le cattive condizioni meteorologiche. «O salite o vi ammazziamo e buttiamo i corpi in mare», è stata la minaccia dei trafficanti libici. I migranti vengono venduti da una banda a un’altra, le richieste di denaro sono continue, i familiari nei paesi di origine vengono intimiditi costantemente. L’organizzazione corrompe poliziotti e funzionari di stato. Spesso gli affiliati sono militari e uomini della guardia costiera libica.

Prigione Zawyia

L’indagine della procura di Palermo evidenzia anche la superficialità e l’indifferenza con cui l’Europa e l’Italia hanno affrontato l’argomento. Nella geografia del traffico di esseri umani la città di Zuara è uno dei luoghi privilegiati per le partenze perché molto vicino al confine tunisino. I due bengalesi torturati, le cui testimonianze sono state pubblicate nei giorni scorsi, erano arrivati qui prima di finire su una barca diretta verso l’Italia. Strategica è pure Zawya, non lontano da Tripoli e Zuara.

«I migranti rinchiusi nella ex base militare venivano innanzitutto privati della loro libertà personale, sorvegliati ininterrottamente da carcerieri armati. Inoltre i soggetti rinchiusi a Zawyia venivano tenuti in condizioni disumane, privi dei beni di prima necessità e delle cure mediche necessarie (tant’è che in tanti sono morti per gli stenti o le malattie lì contratte, così come emerge da diverse dichiarazioni), in modo che, da un lato non rappresentassero un costo per l’associazione, e dall’altro vivessero in uno stato di grave soggezione nei confronti dei loro carcerieri». È un passaggio del mandato di arresto nei confronti di alcuni scafisti e torturatori catturati su ordine del magistrato Ferrara. Nello stesso documento si legge: «La situazione veniva aggravata dal sistematico compimento di continue e atroci violenze fisiche o sessuali, fino a giungere alla perpetrazione di veri e propri atti di tortura, talora culminate in omicidi, e ciò al fine di costringere i familiari dei migranti a versare all’associazione somme di denaro quali prezzo per la loro liberazione».

Organizzazioni internazionali

Nella gestione di questi campi di tortura, secondo quanto riferito da alcuni testimoni vittime dei soprusi, ha avuto un ruolo tale Mohamed decritto come «il libico dell’Oim», cioè l’organizzazione delle Nazioni unite che si occupa di flussi migratori. «Mohamed – dice un testimone al pm – aveva un barba lunga e vestiva in abiti militari, in quanto sulle spalline aveva una stella e tre barre. Egli aveva un aiutante, verosimilmente sudanese, che indossava la casacca dell’Oim e che parlava inglese e arabo». Vengono poi aggiunti dettagli sul luogo di detenzione: «L’area era collegata, tramite un portone, a un’altra base militare operativa dove vi erano militari e anche carri armati. Tale base era in prossimità del mare e di una raffineria. All’interno potevamo esserci circa 500 persone, uomini, donne e circa 15 bambini». Da quanto risulta a Domani la procura di Palermo sta approfondendo il ruolo del «libico dell’Oim». Non sarà facile, ma qualche riscontro è già stato acquisito e gli accertamenti sono in corso anche tramite la richiesta di documentazione in Libia attraverso rogatoria. La parte difficile sarà, come spiega una fonte investigativa, poterlo sentire. Infatti, se davvero lavora per l’Oim, gode dell’immunità diplomatica.

Negli atti dell’inchiesta c’è poi un altro riferimento all’organizzazione della Nazioni unite: nel campo, ex base militare, alcuni testimoni riferiscono di un container dell’organizzazione dell’Onu. «Non è dato sapere se è in disuso e usato dalla criminalità locale», scrivono i magistrati.

Dalle indagini è anche emerso che il «libico dell’Oim» è legato al comandante Bija, il boss del traffico di esseri umani legato alle istituzioni libiche e ospite di incontri ministeriali europei. Bija è il soprannome di Abd al-Rahman al-Milad, a capo della Guardia costiere libica nella zona di Zawyia, cugino, come ha scritto Nello Scavo su Avvenire, di Ossama, il capo del campo governativo di Zawya su cui indaga la procura di Palermo e dove, secondo i testimoni, si trovava Mohamed.

Bija è stato arrestato in Libia lo scorso ottobre. Nel 2018 l’Onu lo aveva inserito in una black list dei trafficanti di esseri umani. Eppure nel 2017 faceva parte della delegazione libica giunta in Italia per incontrare funzionari del governo italiano in un incontro organizzato proprio dall’Oim. In fondo chi meglio di Bija poteva discutere di come frenare i flussi migratori? Il governo era quello di Matteo Renzi, ministro dell’Interno Marco Minniti. Già all’epoca il lager di Zawya era operativo e i migranti venivano torturati. Ma per l’Europa e l’Italia questo evidentemente era secondario. La priorità era fare in modo che la Libia apparisse un porto sicuro.

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