«L’85 per cento degli infortuni gravi, gravissimi o mortali avviene nelle piccole-medie imprese. Dobbiamo impegnarci ad aiutare queste realtà che costituiscono il 90 per cento del tessuto economico e produttivo italiano». Il nuovo direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), Bruno Giordano, parte da qui, per articolare la sua riflessione sullo stato delle cose nel mondo del lavoro in Italia. I numeri parlano chiaro: 677 vittime tra gennaio e luglio 2021, in aumento rispetto allo stesso periodo del 2018 e del 2019. Le ultime settimane sembrano confermare la tendenza. Giusto ieri due operai di 42 e 46 anni sono morti in un deposito di azoto liquido della sede dell’ospedale Humanitas Mirasole a Pieve Emanuele, nel milanese.

Giordano, penalista, magistrato presso la corte di Cassazione, già gip del tribunale di Milano e prima pretore a Torino, dovrà affrontare un compito non semplice. Il mondo del lavoro in Italia presenta una serie di problemi da affrontare e risolvere che non riguardano solo la sicurezza. Ci sono il lavoro nero, la disorganizzazione della macchina dei controlli, la sottoccupazione degli ispettori, la mancanza di incentivi per le aziende che vogliono avere una condotta virtuosa e le zone d’ombra – moltissime – dove non si è ancora indagato abbastanza.

Le morti sul lavoro

«La prima strategia è quella della prevenzione, non quella della repressione», dice Giordano, contrario a un inasprimento delle pene. «Da penalista sono contrario. Spesso si parla di una nuova fattispecie di omicidio sul lavoro o di aumentare le pene per l’omicidio colposo, come avvenuto per l’omicidio stradale. Ma da quando c’è l’omicidio stradale le morti sulle strade non sono diminuite perché chi si mette alla guida di un’auto – o di un’impresa – non lo fa bene o male, tenendo in mente la sanzione penale, lo fa se sa fare il buon imprenditore, il buon datore di lavoro. La sanzione penale non ci restituisce né gli infortunati, né i morti sul lavoro».

In Italia gli incidenti e le morti su lavoro rappresentano una piaga sociale che coinvolge principalmente le piccole-medie imprese, per Giordano occorre coinvolgerle nelle azioni di prevenzione. «Per aiutare le aziende l’Inail elargisce molti incentivi: nelle aziende che ne hanno usufruito sono diminuiti gli infortuni e lì dove si sono verificati è diminuita la gravità degli stessi. Questo vuol dire che i risultati ci sono». L’altra leva, secondo il direttore dell’Inal, riguarda la capacità di far capire alle imprese che la sicurezza non è un costo o un onere, ma un investimento.

Ispettorato e territorio

La normativa attribuisce già da tempo all’Ispettorato del lavoro il coordinamento nelle attività di vigilanza: «Considerando che le Asl in Italia sono oltre 100, che l’Inps e l’Inail hanno degli ispettori che devono essere coadiuvati come numero, il ruolo di coordinamento dell’Ispettorato è centrale. Il problema principale è che il dialogo fra i vari organi non è stato all’altezza della domanda di legalità che arriva dal paese. Il mondo del lavoro vuole verificare l’efficienza del controllo e noi dobbiamo dare questa risposta. Serve una univocità di intervento, che l’ispettorato può e deve imporre».

In questo quadro i nuovi controlli imposti sul green pass potrebbero peggiorare le cose. Ma su questo punto Giordano ha le idee chiare: «Il certificato verde è la verifica di una condizione sanitaria di un soggetto relativamente all’esercizio di un’attività. Non è nient’altro che una verifica amministrativa. Il lavoratore ha anche dei doveri, espressamente previsti dal testo unico sulla sicurezza del lavoro che impone a ciascuno di essere garante della propria incolumità, dell’incolumità degli altri e anche delle persone presenti sul posto di lavoro. I controlli sono già stati effettuati durante la pandemia, non sarà il green pass a intralciare il nostro lavoro».

Le nuove assunzioni

Per adempiere a tale compito Giordano annuncia che stanno per essere assunti 1.102 dipendenti, una parte amministrativa una parte di ispettori. «Altri 450 ispettori tecnici arriveranno poi. Il settore della logistica, ad esempio, vive oggi in Italia attraverso il sistema degli appalti. È lì che dobbiamo intervenire per stanare chi opera nell’illegalità. Queste cooperative spesso dissimulano un rapporto di lavoro, con uno schiacciamento della retribuzione attraverso il ruolo di apparente socio. Sia per la logistica che per altre attività, il tallone d’Achille è l’appalto o il subappalto a enti o a srl che si prestano a essere uno schermo di un effettivo lavoro subordinato».

La sfida del caporalato

Lo sfruttamento del lavoro è una realtà criminosa in cui il mediatore della manodopera agisce intenzionalmente e dolosamente per «approfittare dello stato di bisogno di chi ha necessità di un pezzo di pane e accetta qualsiasi condizione di lavoro». Un sistema difficile da scardinare specie per quei settori in cui la penetrazione della criminalità è molto alta e favorita dalla condizione di bisogno dei lavoratori, spesso stranieri.

«Quando si assume in nero – la media dei nostri accertamenti porta a rilevare il pagamento in agricoltura di circa 3 euro all’ora – vi è un utilizzo del bisogno per il profitto. La conseguenza non è soltanto lavoristica. Questo tipo di rapporto di lavoro porta a schiacciare tutti i diritti sociali che abbiamo guadagnato negli ultimi 150 anni: azzeramento diritti sociali, previdenza sociale, assicurazione sociale, riposo, aspettative, maternità, ferie, etc. In questo caso non è importante la quantità della pena, ma la applicabilità dell’articolo».

Secondo Giordano ci sono tre livelli critici: il primo è quello tra il datore di lavoro e il caporale. Questo rapporto di lavoro estemporaneo, senza alcuna tutela, si realizza grazie a quello che Giordano definisce il «caporalato del terzo millennio», che si articola attraverso organizzazioni che eludono il sistema delle tutele facendo un abuso del contratto di somministrazione. «Si tratta di rapporti di lavoro formalmente regolari ma che di fatto nascondono sfruttamento. Sono formali perché coprono, ma per poche ore, un’attività lavorativa che prosegue parallelamente in nero e che ha un flusso lavoro-denaro che è totalmente fuori dalla legalità. Quel denaro è un’evasione previdenziale, assicurativa e anche fiscale per lo stesso lavoratore».

Il secondo è individuabile nelle zone di lavoro grigio, quelle in cui operano i famosi “colletti bianchi”: «È un rapporto di lavoro che non può essere costruito dal coltivatore diretto o dal piccolo imprenditore edile d’accordo con il lavoratore straniero, qualcuno ha ideato e montato un meccanismo alternativo di buste paga fittizie o parziali. È il sistema gestito dai colletti bianchi». Per Giordano è questo il fenomeno più preoccupante perché non se ne conosce la portata

Il sistema della grande distribuzione organizzata è quello che incide sul terzo livello: specie nel settore agricolo, il piccolo e medio coltivatore è schiacciato dai prezzi imposti dalla grande distribuzione. «Esistono delle condizioni economiche, ossia i prezzi imposti dal mercato, che spingono anche il piccolo imprenditore a schiacciare a sua volta i diritti dei lavoratori».

A sedici mesi dal varo della sanatoria voluta, anche per tutelare la salute pubblica in piena pandemia, dall’allora ministra all’Agricoltura, Teresa Bellanova, solo un terzo delle 207mila domande di emersione è stato definito dalle prefetture, con gravi ritardi nelle grandi città: i sì sono stati per orda 60mila, 11mila i no. Altre 64mila pratiche sono in attesa di pareri e integrazioni. Doveva essere una svolta, invece anche questo strumento ha fallito. Secondo Giordano «la regolarizzazione ha avuto un difetto di fondo e cioè che è stata applicata soltanto per i lavoratori agricoli e i collaboratori familiari. L’Ispettorato del lavoro ha già esaminato il 90 per cento delle oltre 220.000 pratiche pervenute. La regolarizzazione necessita di accertamenti sulla veridicità dei dati, sulla sussistenza dei requisiti, e sulla effettiva esistenza di quel rapporto di lavoro specifico. I casi che sono stati esaminati evidenziano una cospicua presenza di truffe o dichiarazioni di rapporti di lavoro inesistenti. Quindi se anche è vero che la regolarizzazione è stata ridotta soltanto a queste due categorie – ma a mio parere avrebbero dovuto avere accesso altri lavoratori come quelli della logistica e quelli edili – ritengo che i requisiti dovevano essere più stringenti».

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