Grazia ha lavorato per 20 anni in un museo. Insieme a tre colleghe gestiva la biglietteria, il bookshop, l’accoglienza, le prenotazioni, organizzava visite guidate e didattica, oltre a fare la rendicontazione al ministero sugli introiti derivanti dai biglietti. Guadagnava circa 8 euro l’ora, passando da un’azienda all’altra a ogni rinnovo della concessione statale. Da circa sei mesi lei e le sue colleghe sono in aspettativa non retribuita in attesa del licenziamento che scatterà questa settimana, il 15 ottobre, e non sanno cosa accadrà dopo quella data.

Dal 2013 i servizi al pubblico del Museo archeologico nazionale di Taranto – il MarTa, che accoglie capolavori come le Veneri di Parabita e lo Zeus di Ugento, e dove lavorava Grazia – erano gestiti in concessione dalla società Nova Apulia, insieme agli altri sei siti che fanno riferimento alla Direzione regionale musei della Puglia (Castel del Monte, Castello di Bari, Museo e parco archeologico di Egnazia, Castello di Gioia del Colle e Parco archeologico di Monte Sannace).

Nel 2019 la concessione è stata prorogata per un anno e nel 2020 di altri 18 mesi. Ma l’ultima proroga è stata annullata in autotutela dalla stessa Direzione regionale dei musei, perché nel frattempo Consip (la centrale acquisti della Pubblica amministrazione) non aveva ancora bandito una nuova gara e mantenere viva la vecchia concessione sarebbe stato illegittimo. Così Nova Apulia ha inviato le lettere di licenziamento ai 23 dipendenti. «Abbiamo sempre svolto una funzione pubblica con busta paga privata ed eravamo tutte a tempo indeterminato, ma quando finisce la concessione, termina anche quello», dice Grazia.

Il sistema degli appalti

Quello che accade in Puglia è la conseguenza estrema di un sistema che ha permesso ai privati di lucrare sui beni culturali e ha impoverito i lavoratori con bandi al massimo ribasso, contratti fantasiosi e stipendi bassi. Un sistema reso possibile dalla legge Ronchey del 1993 che ha consentito di dare in gestione a imprese private i servizi aggiuntivi dei musei, come bookshop, guardaroba e caffetteria, e che è stato ampliato nel 2004 con il Codice Urbani dei beni culturali e del paesaggio, dove i servizi aggiuntivi hanno inglobato accoglienza, audioguide, visite guidate, laboratori e didattica, mostre, pulizie, vigilanza.

Tutto può essere dato in appalto (l’ente pubblico paga il privato per gestire il servizio) o in concessione (il privato si assume il rischio della gestione), in teoria per favorire la concorrenza anche se, già in una relazione del 2005, la Corte dei conti avvertiva che il 90 per cento dei servizi dei musei era in mano a 8 società concessionarie. Oggi la situazione non è tanto differente: ad esempio, CoopCulture, una delle società più grandi che si occupa di beni culturali, è presente in 127 musei, mentre Civita in 29.

L’obiettivo del Codice Urbani era la valorizzazione dei beni culturali, ma nella sua applicazione è stato interpretato più che altro in senso economico, per lasciare fare profitto ai privati. Negli anni i visitatori sono aumentati, e pure gli introiti (complice anche l’aumento dei prezzi dei biglietti) ma a guadagnarci non è lo stato: nel 2019, ad esempio, la quota di incassi che va alle Soprintendenze è intorno al 12 per cento del totale. Oggi anche molte biglietterie sono gestite da privati, è così ad esempio in oltre cento musei statali.

I lavoratori esternalizzati

Sono 4.880 i musei, monumenti e aree archeologiche che rientrano nell’indagine Istat del 2020, di cui 4.416 musei e istituti similari non statali (la gran parte comunali, alcuni privati) e 464 che dipendono dal ministero. In totale, il patrimonio museale italiano nel 2019 vanta 3.928 musei e raccolte di collezioni, 624 monumenti e 328 aree archeologiche. Difficile però capire quanti lavoratori esternalizzati ci lavorino. Domani lo ha chiesto al ministero della Cultura che non ha risposto.

Quello che è certo è che svolgono una funzione essenziale, visto che al ministero mancano circa 8mila persone. Il segretario nazionale della Uil pubblica amministrazione Federico Trastulli spiega che «negli ultimi vent’anni è diminuito per legge l’organico, da 27mila a 19mila persone, e la mancata pianificazione delle assunzioni non ha garantito il turnover a fronte di pensionamenti di massa». Oggi sono 11.241 i dipendenti pubblici, tra commessi, esecutivi (compresi i custodi) e funzionari che operano in musei statali, archivi, biblioteche, aree archeologiche, complessi monumentali. «In tanti musei, archivi e biblioteche, se non ci fosse il personale esternalizzato o quello di Ales, la società in house del ministero, non potremmo aprire», chiarisce Trastulli, aggiungendo che in alcuni musei autonomi (creati con la riforma Franceschini del 2014, oggi sono 40) gli addetti esterni sono prevalenti rispetto al personale di ruolo.

Gli esternalizzati sono almeno il 60 per cento degli addetti ai musei, secondo la stima di “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, l’associazione di lavoratori del settore che, nel 2019, ha realizzato un’inchiesta pubblicata anche nel volume Oltre la grande bellezza (DeriveApprodi, 2021). È così, per esempio, nel Consorzio delle residenze reali sabaude che, in Piemonte, gestisce la reggia di Venaria e i giardini e il castello della Mandria: circa il 40 per cento del personale è assunto direttamente, mentre il restante 60 per cento lavora per ditte in appalto, e di questi «la metà sono iperprecari che lavorano a chiamata o con contratti a termine», precisa Enzo Miccoli del sindacato Usb. Ai guardasala, per lo più esternalizzati e precari, si affiancano spesso i volontari ma, anziché a sostegno dei lavoratori contrattualizzati come prevede la legge, capita che vengano usati al loro posto.

Contratti non idonei

«Ho l’indeterminato, ogni tre mesi». Chiara lavora da vent’anni nel settore dei beni culturali, ha avuto contratti a progetto pur avendo un orario di lavoro a turni insieme ad assistenti di sala e custodi, poi è passata al contratto del commercio e

al multiservizi per approdare a quello dei servizi fiduciari, con una paga oraria di 4,80 euro. Da tempo è a Palazzo Barberini, museo statale di Roma in cui si trova parte della Galleria nazionale di arte antica, dove i bandi per la gestione dei servizi al pubblico, per questioni di bilancio, si fanno ogni tre mesi, appunto. Ciò significa che, a ogni cambio di appalto, può entrare un nuovo gestore e si rischia di dover ricominciare da capo.

Chiara guadagna 800 euro al mese scarsi e ha un part-time verticale che consente a lei – e ai suoi 15 colleghi – di non doversi spostare nel traffico di Roma ogni giorno per un turno di poche ore, ma di lavorare tutto il giorno, fermandosi solo a pranzo. È anche coordinatrice con una reperibilità che non le permette di lavorare altrove per integrare uno stipendio incompatibile con il costo della vita. Questa condizione è simile a quella di migliaia di lavoratori esternalizzati che lavorano nei musei della penisola, spesso laureati che parlano più lingue straniere, con una professionalità maturata in anni di lavoro ma a cui vengono offerti solo contratti inadeguati e paghe bassissime.

Dall’indagine di “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” risulta che il Federculture, il contratto di lavoro specifico per i lavoratori del settore, firmato nel 1999 dai sindacati confederali di categoria e dall’associazione delle imprese più rappresentative del settore, è applicato solo nel 7 per cento dei casi. Ales, la società del ministero dei Beni culturali, adotta quello del commercio, mentre coop e aziende in appalto spesso hanno il contratto “multiservizi” (un campo di applicazione enorme, dalle pulizie al portierato, fino alla ristorazione e ai servizi museali e una paga oraria media di 8 euro), oppure il contratto delle cooperative sociali o quello per i servizi Cisal, firmato solo da un sindacato autonomo e da alcune associazioni di impresa.

Negli ultimi anni, poi, si sta affacciando alle gare anche chi si occupa di guardiania e usa il contratto dei servizi fiduciari o della vigilanza, in cui la paga oraria scende sotto i 5 euro. Più di 6 persone su 10, secondo il sondaggio dell’associazione, guadagnano meno di 10mila euro all’anno.

Dice Chiara: «Il problema non va cercato nel singolo museo o direttore, ma nel sistema degli appalti a cui accedono società che, con le gare al massimo ribasso e senza vincoli sui contratti da applicare, non garantiscono ai lavoratori stipendi adeguati né continuità lavorativa. Siamo pagati, indirettamente, dallo stato e lo stato non può permettere una situazione del genere».

Cambi di gestione continui

«Il nostro servizio è stato inserito nel bando per le pulizie del museo, le nostre nuove responsabili sono del settore cleaning. Non è che un lavoro abbia più dignità di un altro, ma siamo di nuovo con un’azienda che non si occupa di cultura». A parlare è uno degli addetti all’accoglienza dei Musei San Domenico a Forlì. L’ultimo cambio di casacca è del primo ottobre scorso. Negli ultimi quattro mesi i servizi al pubblico (accoglienza, sorveglianza, custodia e biglietteria) nelle sedi di San Domenico e palazzo Romagnoli, che ospitano la pinacoteca e dove è possibile ammirare l’Ebe scolpita da Antonio Canova, sono stati in mano a una società che si occupa di guardiania e servizi fiduciari, Fenice security service, subentrata a Formula servizi, tuttora attiva nei musei per la gestione delle sale durante le mostre. Nel cambio di appalto, a giugno, solo 7 dipendenti di Formula sono passati a Fenice, e il loro contratto è cambiato: da multiservizi a servizi fiduciari, con una perdita di 3 euro l’ora.

I sindacati sono riusciti a strappare un superminimo per raggiungere almeno il livello economico precedente, insistendo sul fatto che le mansioni erano le stesse. Ma questo non è stato applicato ai nuovi assunti: «Siamo stati licenziati in 8 per mancato superamento del mese di prova. Al 28esimo giorno non mi hanno più mandato i turni e dopo una settimana sono stata licenziata», racconta una di loro.

Chi ha maturato la propria conoscenza del settore in anni di lavori a chiamata, spostandosi tra diversi musei della regione, osserva: «Non capisco perché vengano fatte entrare al San Domenico aziende che non conoscono questo lavoro e mi preoccupa la discontinuità causata dal cambio di gestione». Dal primo ottobre, infatti, i servizi museali sono passati a Coopservice, un’impresa di Reggio Emilia specializzata in pulizie e vigilanza. L’amministrazione comunale le ha affidato direttamente il servizio, mentre prepara la nuova gara europea.

L’ipotesi di assumere direttamente il personale che dalle ditte esterne finora è stato retribuito dai 4 agli 8 euro per un servizio che al comune non costa meno di 20 euro l’ora, invece, non è all’ordine del giorno. Spiega Stefano Benetti, dirigente del Servizio cultura, turismo e legalità del comune di Forlì e già direttore dei Musei civici di Mantova: «Non credo che esista un caso in Italia di musei che hanno un piano di assunzioni straordinarie, non fa più parte delle politiche locali e nazionali perché serve molto più personale che nessun comune italiano, se ha un museo di medie dimensioni come il nostro, può permettersi. E poi sul mercato ci sono aziende con tanti ragazzi volenterosi e competenti che possono far crescere il museo». Competenti e volenterosi, appunto.

Effetto pandemia?

«Noi esternalizzati siamo circa 400, facciamo la sorveglianza, le guide, la biglietteria, ci dividiamo le ore dei vari musei che non bastano mai, perché non siamo più tornati agli orari di apertura del 2019», spiega una lavoratrice che da più di vent’anni accoglie i visitatori nei Musei civici di Venezia (dove quest’estate si faceva la coda per entrare, come prima del Covid) e che preferisce restare anonima. Il suo full time, con contratto multiservizi, le porterebbe 1.100 euro al mese, ma nell’ultima busta paga ci sarà una trentina di ore lavorate in meno. È preoccupata per i colleghi part-time: con 9 musei su 11 aperti solo dal giovedì alla domenica, molti non riusciranno a raggiungere nemmeno i 6-700 euro che prendevano un tempo.

Sono aperti tutti i giorni solo i musei che incassano di più, palazzo Ducale e Correr, e i lavoratori stanno perdendo il 40 per cento del salario, denunciano i sindacati. Chiedono alla Fondazione Musei civici di Venezia, creata dal comune nel 2008 per gestire il patrimonio pubblico museale, di tornare all’orario pieno in tutti i siti, convinti che questo non debba dipendere dai flussi turistici. «Se aprissero totalmente, si potrebbero evitare gli ammortizzatori sociali», taglia corto Andrea Porpiglia di Filcams Cgil.

Nei primi mesi di quest’anno hanno fatto fino all’80-90 per cento di cassa integrazione anche i dipendenti diretti della Fondazione, 72 tra amministrativi e chi si occupa di programmazione, attività scientifica e conservazione. «Una scelta surreale, perché il loro lavoro si svolge dietro le quinte e prescinde dall’apertura dei portoni», accusa Daniele Giordano della FP Cgil.

Per i sindacati è in gioco un uso improprio della cassa integrazione, dato che la Fondazione ha chiuso il 2020 con un utile di 550mila euro e si avvia almeno al pareggio di bilancio per il 2021, salvata da 8 milioni di euro di ristori statali l’anno scorso e in attesa degli almeno 4 milioni che dovrebbero arrivare quest’anno.

A metà ottobre per gli addetti esterni, contrattualizzati da CoopCulture e Socioculturale, finisce il sostegno al reddito previsto per i lavoratori che non possono accedere alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria. I sindacati sperano in una proroga per arrivare all’inizio del 2022 e traghettare tutti nel nuovo appalto, dato che quello attuale scade a marzo. «Ci chiediamo se il nuovo appalto verrà strutturato sull’offerta di ore che c’è adesso», aggiunge una lavoratrice, raccogliendo un timore tipico in questo esercito di precari.

Professionalità frustrate

Ancora non c’è una data certa per la gara che dovrà dare in concessione i servizi al pubblico nei musei pugliesi. Nel frattempo, lo scorso luglio la Direzione regionale musei pugliesi ha fatto un bando ponte di 33 settimane per dare in appalto solo il servizio di biglietteria di Castel del Monte e Castello di Bari, vinto da CoopCulture che ha assorbito 6 degli 8 lavoratori di Nova Apulia in servizio su quei siti. Per i 16 lavoratori rimasti a casa, tra cui Grazia, i sindacati e il Sepac, il comitato che monitora il sistema economico produttivo e le aree di crisi in regione, sono riusciti ad attivare la cassa integrazione per cessazione d’azienda, da agosto a fine anno. «Il rientro lo vedo difficile. Abbiamo tutti superato i 40 anni e siamo in gran parte donne, frustrate nella nostra professionalità acquisita in anni di lavoro e ora finita nel cestino», conclude Grazia. La strada per garantire dignità ai precari dei musei è ancora lunga.

 

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