Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.


I giornali raccontano la Palermo del dopo strage. E l’8 settembre, su Repubblica esce un’altra intervista di Giorgio Bocca. Questa volta a parlare è il figlio del generale, Nando.

«Che cosa penso dell’omicidio di mio padre? Penso che sia stato un delitto politico deciso e commesso a Palermo. Né a me né ad altri della mia famiglia interessa sapere chi sono stati i killer, se venuti da Catania o da Bagheria o da New York. Interessa che siano individuati e puniti i mandanti che, a mio avviso, vanno ricercati e puniti nella Democrazia Cristiana siciliana».

Nando dalla Chiesa ricorda che tutti i suoi nemici, il padre li ha indicati pochi giorni prima di morire al settimanale L’Europeo. Sono Lima, Ciancimino, D’Acquisto, Martellucci, il segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti.

La reazione di Palermo è rabbiosa. Si scatenano tutti contro il figlio del prefetto ucciso. È lui il colpevole, una settimana dopo la strage.

È un «sociologo politicizzato» che usa il nome del padre. È in grado di provare le sue gravissime accuse? È un mascalzone. Strumentalizza il lutto a scopi politici perché «è comunista».

Nando dalla Chiesa si è limitato a ricordare le parole pubblicamente pronunciate dal generale nei suoi ultimi giorni di vita. È questa la sua colpa.

«Palermo è una città pulita, una città che non si fa chiacchierare addosso», dichiara Salvo Lima.

«Sono tutti galantuomini, sono tutti galantuomini», dice dei ras della sua onorata corrente Giulio Andreotti, che in Sicilia ha già incontrato i capi di Cosa Nostra e fino all’ultimo si è opposto alla nomina a prefetto del generale.

Non passa un mese dall’agguato di via Isidoro Carini e già comincia la demolizione della figura di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Umberto Capuzzo, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, vecchio nemico del generale: «Probabilmente lo stesso fatto nuovo nella vita sentimentale di questo ufficiale, che alla sua età sposa una giovane donna, ha influito. Forse non voleva far pesare su di lei il suo ambiente di precauzioni, di mancanza di libertà». Riccardo Boccia, il prefetto di Napoli che qualche mese prima ha protestato per i super poteri da affidare a dalla Chiesa: «Forse in questo ha sbagliato lui: sembrava che fosse entrato in guerra con la mafia».

Il sindaco Nello Martellucci in privato si spinge senza vergogna a sostenere che il generale «si è suicidato».

La tecnica è sempre la stessa. Prima si calunnia, poi si spara, poi si torna a gettare fango. Con uno Stato che arriva sempre dopo.

Il 13 settembre, il Senato approva i trentacinque articoli della nuova legge antimafia.

Non è bastata la morte del segretario del Pci Pio La Torre, c’è voluta anche quella di Carlo Alberto dalla Chiesa per ottenere quella legge. Definito il delitto di associazione mafiosa. Confisca dei beni. Controlli sui patrimoni.

La legge è la «Rognoni-La Torre», dai nomi del ministro degli Interni e del segretario regionale del Pci dell’isola.

È la straordinaria eredità che ha lasciato il comunista siciliano ucciso il 30 aprile a Palermo. Il primo a ribellarsi alla legge antimafia è uno dei quattro Cavalieri di Catania, Carmelo Costanzo, uno di quelli citati da dalla Chiesa nell’intervista a Bocca.

L’imprenditore giudica «indegno» il nuovo sistema di verifiche sugli appalti. Qualche giorno dopo l’entrata in vigore della «Rognoni-La Torre», chiude tutti i suoi cantieri in Calabria e licenzia gli operai.

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