«Sono passati trent’anni. Sarebbe ora che chi sa qualcosa parli». La speranza di Andrea Carni, storico dell'Università di Milano e autore di "Cose storte" sulla storia delle navi a perdere, è amara ma calzante. La vicenda del Capitano Natale De Grazia, morto in circostanze misteriose mentre indagava su un sistema criminale in grado di minacciare la sicurezza nazionale, resta ancora avvolta nel mistero. Tre decenni dopo non si sa né cosa avesse scoperto, né perché e da chi sia stato ucciso.

La sua morte, anzi, è stata archiviata come «morte per cause naturali» nonostante una perizia medico legale escluda ogni ipotesi diversa dall’avvelenamento. Oggi Natale De Grazia avrebbe compiuto 69 anni, ma invece di celebrarne la vita e il coraggio civile, il paese continua a fare i conti con una morte senza verità, avvolta da segreti, silenzi e responsabilità mai chiarite.

I fatti

Entrato a far parte del pool investigativo che si stava occupando di un traffico di rifiuti pericolosi nei primi mesi del 1995, l’ufficiale della capitaneria di porto Natale De Grazia mise le sue competenze al servizio del sostituto procuratore di Reggio Calabria, Franco Neri. Investigatore metodico e stimato, venne scelto da Neri per le sue conoscenze in ambito marittimo.

Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, Natale De Grazia si mette in viaggio con due colleghi verso La Spezia per visionare dei documenti su una nave, la Rigel, affondata anni prima forse con un carico di rifiuti tossici e radioattivi. Ma in Liguria non ci arrivò mai. Nel corso della notte perde la vita, colto da un violento e improvviso malore.

La causa tossica

Nel referto della prima autopsia, condotta il 19 dicembre su incarico della procura, il decesso viene immediatamente liquidato come «una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta». Ma c’è qualcosa che non torna: «Sul corpo di De Grazia - spiega Carnì - non venne effettuato nessun esame tossicologico per escludere cause diverse da quella naturale».

Una stortura che spinge la famiglia a chiedere una seconda autopsia, condotta due anni più tardi. Ma, di nuovo, c’è un elemento fuori posto. «Viene chiesta dalla procura un’analisi tossicologica - spiega Carnì - ma si cercarono stupefacenti, come oppiacei e cocaina, e non altre sostanze tossiche». Accertamenti che non portarono a nessun nuovo risultato e la morte fu nuovamente archiviata come naturale.

Le incongruenze di quelle analisi vennero messe nero su bianco nel 2013 dal professor Giovanni Arcudi, incaricato dalla commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti di analizzare nuovamente documenti e reperti.

«Non posso non osservare - si legge nella relazione finale - come gli accertamenti, allora disposti, risultino condotti in maniera piuttosto superficiale con incomprensibili carenze e contraddizioni». E ancora: «Manca qualsivoglia elemento che giustifichi la morte improvvisa per cause naturali. La progressiva depressione delle funzioni del sistema nervoso centrale è compatibile solo con una causa tossica».

Sembra finalmente un punto di svolta, ma la procura di Nocera Inferiore, titolare del fascicolo sulla morte di De Grazia, decide di non riaprire l’indagine per la mancanza di ulteriori elementi investigativi.

«Tra le motivazioni - sottolinea Carnì - forse, c’è anche il fatto che Arcudi scrive che “dal versante medico legale il caso è chiuso”. Ma una verità storica e giudiziaria si potrebbe ancora avere». La procura di Nocera Inferiore non ha più riaperto il caso, ponendo al momento la parola “fine” sulla vicenda.

Segreti

Per comprendere perché De Grazia sarebbe stato ucciso occorre guardare alle indagini che stava conducendo. O, almeno, a quello che conosciamo di quelle indagini. Sappiamo che il pool di Reggio Calabria stava lavorando ad una serie di affondamenti sospetti delle cosiddette “navi a perdere”, imbarcazioni stipate di rifiuti tossici e radioattivi ed affondate in mare aperto.

Sappiamo di un informatore confidenziale detto “Pinocchio”, forse vicino ai servizi segreti, che avrebbe rivelato dettagli importanti su molte delle navi coinvolte e la cui identità è ancora oggi tenuta segreta. E sappiamo che l’inchiesta allarmò gli inquirenti al punto da trasmettere una nota al Quirinale in cui si informava il capo dello stato «che le indagini potevano riguardare la sicurezza nazionale», come ricorderà anni dopo il procuratore Neri.

Ma sappiamo poco altro. «Buona parte delle carte è ancora secretata - commenta Carnì - per questo è difficile oggi ricostruire un quadro completo. Trent’anni dopo nuovi elementi, forse determinanti, possono uscire da quei documenti o dalle parole di chi ancora non ha parlato o lo ha fatto a metà».

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