Garantire la salvezza ai più, distribuendo a pochi i profitti della corsa all’antidoto contro il Covid-19. È la “mission impossible” della civiltà occidentale di fronte a una catastrofe sanitaria che ha già seminato oltre 2 milioni e mezzo di vittime. Un tale compromesso etico si merita un nome: Hans Kluge.

A ogni conferenza stampa, il direttore generale per l’Europa dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), predica l’urgenza di rendere i vaccini anti coronavirus accessibili a tutti. Un giorno gli chiedo: «Che ne direbbe di un accordo multilaterale che costringa i gruppi farmaceutici ad affidare a terzi parte della produzione per ampliare la disponibilità di dosi?».

Lui mi liquida con una divagazione che racchiude emblematicamente tutto l’imbarazzo dell’occidente, assillato da un duplice e contraddittorio imperativo. I leader istituzionali sanno che la priorità è proteggere la vita (quella dei potenziali infetti e di coloro che perdono i mezzi di sussistenza a causa del blocco delle attività commerciali volto a contenere i contagi). Ma, contemporaneamente, non osano mettere in discussione le logiche del profitto su cui si fonda l’attuale modello di sviluppo.

Da una parte i governi promuovono l’immunizzazione di massa. Dall’altra corrono il rischio che l’industria la rallenti, lasciando la produzione nelle sue mani, anziché democratizzarla. È la critica mossa da molti. La difficoltà di conciliare salute e denaro è andata apertamente in scena al Consiglio europeo in videoconferenza del 24 e 25 febbraio. I 27 capi di stato e governo si sono limitati a esortare i farma-colossi ad assicurare la prevedibilità della produzione e a rispettare i termini di consegna. Non hanno neanche fatto cenno all’eventualità di obbligarli allo scambio di informazioni e alla co-produzione attraverso il ricorso all’articolo 122 del Trattato Ue che consente interventi eccezionali in caso di scarsità di beni essenziali.

Per ora, l’unica contromisura minacciata dalla Commissione europea per garantire l’approvvigionamento dell’Ue è il blocco dell’export dei vaccini, col risultato di sottrarre difese antivirali agli altri popoli, senza necessariamente rendere le aziende più cooperative.

Vaccino per tutti

I big del settore farmaceutico (il più redditizio tra i comparti industriali) hanno promesso miliardi di dosi. Tuttavia, l’unico risultato immediato è l’impennata delle loro quotazioni in borsa che ha arricchito i dirigenti aziendali (quelli di Johnson & Johnson, Pfizer, Moderna e Novavax hanno complessivamente intascato 120 milioni di euro vendendo parte delle loro azioni). Permane invece incertezza sul fattore chiave, i tempi di distribuzione.

Uno studio di Allianz stima che ogni settimana di ritardo rispetto al raggiungimento della soglia minima di immunità collettiva necessaria per allentare le misure di contenimento fa perdere all’Italia e all’intera Ue rispettivamente 2 e 18 miliardi di euro di Prodotto interno lordo.

All’assemblea generale dell’Oms dello scorso novembre ci si è accordati su meccanismi meramente volontaristici. Un fiasco.

I colossi farmaceutici hanno snobbato sia lo strumento Pool C-tap per la condivisione solidale di brevetti e tecnologie, sia il Covax, un fondo globale ideato perché i paesi potessero contrattare i vaccini collettivamente con maggiore potere negoziale, ottenendoli a prezzi più convenienti e ripartendoli equamente tra tutti. Avendone la scelta, le industrie preferiscono negoziare coi singoli stati: recapitano prima le dosi a chi le paga meglio.

Finora, hanno promesso al Covax poco più di 2 miliardi di dosi umanitarie, sussidiate dalle economie ricche con 7 miliardi di euro. Si tratta di quantità appena sufficienti per immunizzare entro la fine dell’anno solo il 20 per cento della popolazione nelle nazioni a basso e medio reddito (calcolando una doppia inoculazione a testa per una completa protezione).

«Occorre vaccinare a tappeto anche zone lontane da noi, altrimenti nuove varianti potrebbero ridiffondersi nello spazio occidentale», avverte Catherine Smallwood, specialista dell’unità emergenze dell’Oms, «e se le aree più povere della terra fossero lasciate nell’insufficienza di vaccini sino al 2024, l’intero pianeta perderebbe 126 miliardi di euro all’anno per via delle restrizioni al movimento di persone, beni e servizi», dice Marco Hafner, economista alla Rand Corporation e autore di una ricerca secondo la quale per ogni euro speso per i vaccini si risparmierebbero danni di entità quattro volte superiore.

Proprietà intellettuale

L’Ue ha versato ai suoi fornitori caparre per 2,7 miliardi di euro per sostenere lo sforzo necessario a produrre le dosi pattuite. Gli stati membri possono donarne le quote in eccesso ai paesi in difficoltà. Peccato che non ce ne siano abbastanza neanche per loro, visti gli annunciati ritardi nelle consegne. Dati gli imprevisti incombenti sulla produttività degli impianti, le aziende hanno rifiutato di legarsi a precise scadenze. È quanto emerge dagli accordi sottoscritti dalla Commissione europea finora desecretati, quelli con AstraZeneca, Curevac, Sanofi. «Abbiamo sottovalutato i deficit di produzione», ammette Ursula von der Leyen. Al pari di Kluge, la presidente della Commissione europea ha un approccio ambiguo. S’indigna per i continui tagli delle forniture da parte di AstraZeneca.

Eppure non rimpiange che il contratto siglato dalla sua negoziatrice Sandra Gallina conceda alla società anglo-svedese l’esclusiva sulla proprietà intellettuale del vaccino. Tant’è che la sua squadra di funzionari della Direzione commercio continua a opporsi, insieme a Usa e Giappone (anch’essi rispettosi delle lobby farmaceutiche), alla sospensione del Trattato internazionale che tutela la proprietà intellettuale (Trips), foss’anche solo per una durata utile a sconfiggere la pandemia. L’iniziativa, volta a liberalizzare e rendere meno cari i farmaci e i dispositivi contro il coronavirus, è stata lanciata all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) lo scorso ottobre da India e Sudafrica.

«Esiste ovunque larga capacità produttiva inutilizzata, ma restiamo appesi ad alcuni stabilimenti che non potranno mai fornire tutto il dovuto», afferma Massimo Florio, professore di Economia pubblica all’università di Milano, «non ha senso che le compagnie farmaceutiche abbiano un’esclusiva di produzione, potrebbero benissimo essere remunerate tramite royalties percepite in base a licenze rilasciate a terzi».

Produzione

I big stanno subappaltando le diverse fasi della loro produzione a realtà più piccole e specializzate che tuttavia non hanno licenza per fabbricare e distribuire il vaccino per conto loro. In Europa (compreso il Regno Unito) si contano una cinquantina di partenariati che si spartiranno gli oltre 30 miliardi di euro che i contribuenti degli stati membri sborseranno per le dosi prenotate e via via consegnate.

AstraZeneca ha inoltre accordato licenze a produttori in India, Brasile, Giappone, Corea del sud, Cina, Australia, Spagna, Messico e Argentina, obbligandoli però a vendere esclusivamente in limitate aree geografiche. Insomma, a controllare l’offerta restano sempre gli stessi.

«I vaccini sono un bene universale, non possono essere privatizzati come se fossero normali prodotti di consumo, è intollerabile essere ostaggio del diktat delle multinazionali», protesta Sara Albiani, consulente della fondazione Oxfam, le cui elaborazioni evidenziano come le disponibilità siano talmente limitate che le nazioni più ricche, pur rappresentando meno del 15 per cento della popolazione mondiale, hanno pre-acquistato oltre la metà delle dosi dei vaccini più promettenti.

«È indispensabile», insiste Albiani, «condividere brevetti e tecnologie, altrimenti non si riesce ad allargare la produzione abbastanza per soddisfare la domanda globale, coprendo anche le regioni meno abbienti». Analoghe richieste erano già state avanzate nell’estate 2020 dall’Europarlamento, nonché da una cordata di ong con una petizione comunitaria che ha finora raccolto circa 90 mila firme. Ne servono un milione entro il primo maggio perché la Commissione europea la prenda in considerazione. Tradurre i princìpi in azioni concrete non è facile.

«Per i vaccini Rna di Pfizer-BioNTech e Moderna, creati sinteticamente tramite processi innovativi, è difficile assicurarsi che le aziende a cui venissero trasferite licenze e tecnologie siano in grado di usarle correttamente, senza commettere errori nocivi per la salute», spiega Sam Fazeli, analista di Bloomberg Intelligence, «sarebbero più facilmente replicabili da terze parti i vaccini basati sulle tradizionali e diffuse metodologie a fermentazione, come quelli adenovirali di AztraZeneca e Johnson o quelli che usano il virus inattivato, ad esempio la tipologia sviluppata dalla cinese Sinovac».

Gli assegni in bianco

Se alcune possibilità ci sono, che cosa manca per attuarle? «Insegnare ad altri a usare le nostre metodologie richiede tempo e risorse, siamo già al limite delle possibilità coi nostri attuali partner», chiarisce (o si giustifica) Pascal Soriot, amministratore delegato di AstraZeneca che detiene la licenza sul vaccino sviluppato da Oxford.

Sia Soriot che i capi delle altre aziende si sono detti contrari a un sistematico trasferimento tecnologico a terzi durante l’ultima audizione tenutasi all’europarlamento.

«La parziale sospensione del Trips o anche il rilascio di licenze obbligatorie che il Trattato autorizza in situazioni di crisi sanitarie non sarebbero misure sufficienti, infatti per produrre i vaccini qualunque soggetto terzo avrebbe comunque bisogno di un’attiva collaborazione da parte dei titolari delle tecnologie per l’acquisizione del know-how», commenta la olandese Ellen ‘t Hoen, direttrice del centro studi Medicines Law & Policy, «i governi avrebbero dovuto vincolare le case farmaceutiche a questo tipo di impegno in cambio dei fondi pubblici per ricerca e sviluppo, anziché sperare in iniziative spontanee da parte loro. Ma vige una sorta di psicosi politica, si teme che l’industria cesserebbe di innovare se le si rendesse la vita difficile».

In linea con questo timore è la risposta data dal vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis all’interrogazione presentata a dicembre da un gruppo di eurodeputati sulla controversa proposta di India e Sudafrica: «Un passo del genere rischierebbe di limitare gli incentivi alla ricerca di prodotti farmaceutici innovativi per rispondere alle nuove sfide sanitarie».

Thomas Cueni, direttore generale della Federazione internazionale delle case farmaceutiche, dichiara pubblicamente: «Il messaggio sbagliato che ne deriverebbe è che, a ogni una nuova pandemia, verrebbe annullata la protezione dei brevetti che è proprio ciò che ha permesso di reagire efficacemente all’emergenza in corso».

Gli fa eco sulla stampa Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer: «La proprietà intellettuale è la soluzione, non un ostacolo».

Il dibattito s’infiamma. «Questa volta il discorso sulla tutela dei brevetti per ricompensare gli investimenti non sta del tutto in piedi», puntualizza Rachel Thrasher, ricercatrice al Global Development Policy Center, «i governi hanno assunto un ruolo attivo nel finanziamento (8 miliardi di euro solamente per Moderna, AstraZeneca e il tandem Pfizer-BioNTech, foraggiate rispettivamente da Usa, Regno Unito e Germania), senza contare che le aziende hanno una domanda garantita in tutto il mondo, che assicurerebbe profitti sostanziosi anche qualora parte del denaro investito provenisse dalle loro tasche».

Per immunizzare l’intera popolazione mondiale saranno necessarie fino a 14 miliardi di dosi. Quantitativi che potrebbero moltiplicarsi se, come molti scienziati prevedono, la copertura immunitaria sarà limitata nel tempo, richiedendo ripetuti richiami.

Troppo tardi?

Tra chi dice bianco e chi nero, è probabile che la verità sulla presunta avidità di Big Pharma sfumi nel grigio, tendente però allo scuro, non foss’altro per l’opacità sui costi di produzione. Gli stessi governi occidentali rifiutano di costringere le società a renderli pubblici.

Tra quelli più ostili ci sono Regno Unito, Francia e Germania, i paesi dove hanno appunto sede i principali produttori europei in gara sui vaccini.

La risoluzione dell’Oms del 2019 (prima della pandemia) che esorta alla trasparenza in materia, per sorvegliare i sovrapprezzi sui farmaci, resta per lo più lettera morta.

Gli esperti formulano diverse opzioni per conciliare interesse pubblico e privato. Ad esempio i governi potrebbero organizzare centri congiunti di manifattura su larga scala senza toccare i brevetti o, alternativamente, rimborsare collettivamente i titolari dei brevetti in cambio di una moltiplicazione dei licenziatari delle tecnologie.

«Il sistema basato sul monopolio dei brevetti e del profitto non funziona per far fronte alle pandemie, ma ormai è difficile per i governi convergere su un meccanismo più adeguato nel mezzo di un disastro dove loro stessi sono in competizione per procurarsi medicinali per i propri cittadini. Bisognava pensarci prima», chiarisce Michelle Childs, coordinatrice dell’attivismo politico presso la Drugs for Neglected Diseases Initiative.

Aggiunge Clemens Martin Auer, co-presidente della task force Ue sui vaccini: «Spero che i governanti abbiano imparato la lezione e compiano scelte sagge almeno in futuro».

In attesa di cambiamenti di rotta a livello politico siamo costretti a subire il male minore. Sempre meglio che nessun vaccino è il “divide et impera” di chi lo produce.

Questa inchiesta è stata realizzata in partnership con European Data Journalism Network (EDJNet) nell’ambito del progetto “Who is cashing in on the Covid-19 pandemic” sostenuto da Investigative Journalism for Eu.

 

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