Un aumento fino a 150 euro al mese, ma il 60% veniva già percepito da insegnanti e personale Ata. Flc Cgil rompe il fronte e non firma. La segretaria Fracassi: «Soldi che non coprono nemmeno un terzo dell’inflazione, e una parte rilevante era già in busta». Il governo: «Un passo storico»
Roma, sede dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni (Aran), un martedì di novembre. La sala è quella consueta, tavoli lunghi e sedie in fila, ma l’aria è più tesa del solito. Il rinnovo del contratto scuola 2022-2024 si chiude in poche ore con una velocità che sorprende persino alcuni dei presenti. La maggioranza del fronte sindacale firma: Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals, Gilda e Anief. La Flc Cgil no. Il governo rivendica l’intesa come un successo, «un passo storico». I numeri raccontano altro.
L’aumento medio lordo per i docenti viene presentato in 150 euro al mese (circa 110 per il personale Ata). Ma oltre il 60% di quella cifra è denaro che gli insegnanti già percepivano da mesi sotto forma di Indennità di vacanza contrattuale. L’incremento reale in busta paga, quello che arriva adesso, è significativamente più basso: tra i 30 e i 50 euro netti, a seconda delle qualifiche. Gli arretrati forniscono un’entrata una tantum, utile, certo, ma non modificano il quadro.
L’inflazione del triennio sfiora il 17%. L’aumento contrattuale complessivo è di poco meno del 6%. Il divario è evidente. Significa che, a parità di lavoro, lo stipendio reale degli insegnanti continua a valere meno.
Il governo, attraverso il ministro Valditara e il ministro della Funzione pubblica Zangrillo, mette l’accento su un altro elemento: questo contratto serve ad aprire subito il tavolo per quello successivo, 2025-2027. È qui la chiave della narrazione politica. «Abbiamo sbloccato la partita», è la formula ripetuta nei comunicati stampa. La firma diventa l’immagine di un governo efficiente che porta a casa risultati, in un momento in cui la scuola è terreno di scontro pubblico e simbolico.
C’è chi dice no
Le sigle che hanno sottoscritto l’intesa spiegano che non c’erano margini per ottenere di più su questo triennio e che rinviare avrebbe solo rallentato gli arretrati e bloccato l’apertura del nuovo negoziato. La Cisl Scuola parla di decisione «responsabile». La Gilda definisce le risorse «insufficienti», ma firma per non isolare la categoria e per ottenere impegni sul prossimo ciclo. L’Anief riconosce apertamente la logica dell’operazione: un “contratto ponte” per arrivare entro il 2030 a recuperare la perdita accumulata.
La Flc Cgil, invece, rifiuta. La segretaria nazionale Gianna Fracassi, nel colloquio con Domani prima della rottura finale, è netta: «Gli aumenti non coprono nemmeno un terzo dell’inflazione, e una parte rilevante era già in busta. Avremmo chiesto tre giorni per consultare gli organismi interni: è la prima volta in vent’anni che questo non viene concesso». Fracassi parla anche del metodo: la convocazione è arrivata via mail la sera prima, la firma è stata annunciata pubblicamente da esponenti della maggioranza mentre la trattativa era ancora in corso. La dinamica viene letta come un modo per comprimere il dissenso e rafforzare il messaggio politico.
Il rinnovo, però, lascia fuori quasi tutto ciò che pesa davvero sulla vita scolastica: stabilizzazioni, organici di sostegno, riconoscimento del burnout, progressioni di carriera, estensione della carta docente, buoni pasto, orario e carichi di lavoro, riforma del reclutamento. Tutti nodi rimandati al contratto 2025-2027, cioè a un tavolo ancora da aprire, con risorse ancora da definire.
Dilemma sindacale
Il quadro europeo del resto raffredda qualsiasi trionfalismo. Secondo i dati comparativi Ocse, gli stipendi dei docenti italiani, dopo 15 anni di servizio, restano tra i più bassi dell’Europa occidentale e molto lontani dai Paesi in cui l’insegnamento è considerato professione ad alta qualificazione. In Italia la progressione salariale è lenta, compressa e non premia l’esperienza o la formazione continua in modo strutturale.
La frattura sindacale non è soltanto una differenza di valutazioni tecniche. È un conflitto sul senso stesso della rappresentanza: accettare aumenti insufficienti per sbloccare risorse e aprire il tavolo futuro, oppure rifiutare un arretramento certificato del potere d’acquisto per indicare una linea rossa politica.
Il governo rivendica la firma come prova di affidabilità ma l’immagine della scuola che esce da questa giornata resta segnata da salari che perdono terreno, aspettative rinviate e una categoria che non trova un’unica voce per far valere il proprio ruolo. Insomma, il contratto si chiude ma la questione resta aperta.
La firma arriva infatti mentre la legge di bilancio entra nella sua fase decisiva. Il governo ha scelto di concentrare le risorse su taglio del cuneo e premi fiscali, lasciando alla scuola uno spazio limitato. Lo confermano le stime interne del Mef: per il rinnovo 2025-2027 serviranno fondi aggiuntivi che oggi non sono stanziati. La scelta è politica, e precedente a ogni tavolo contrattuale. Senza nuove coperture, il prossimo negoziato ripartirà esattamente dal punto in cui si è chiuso questo: con la promessa di aumenti futuri e la certezza di un potere d’acquisto ancora in calo.
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