Nel pubblico, l’ultima battaglia riguarda il personale Ata: per i sindacati l’aumento di 47 euro lordi è irrisorio. Nel privato vincono i bancari con aumenti da 435 euro mensili lordi. Complessivamente il 43,7% dei lavoratori interessati è coperto da un contratto collettivo scaduto. Si procede a due velocità, privilegiando i settori politicamente più appariscenti. Il comparto pulizie va avanti da 5 anni con un contratto da meno di 8 euro lordi l’ora. La promessa di un’indicizzazione automatica per ora non è nemmeno sulla carta
La Cgil definisce «irrisori» gli aumenti da 47 euro medi lordi per docenti e personale Ata, il governo rivendica di aver rilanciato la contrattazione. Ma i dati raccontano altro.
Secondo l’Istat, al secondo trimestre 2025 oltre 5,7 milioni di lavoratori (il 43,7% del totale) sono ancora coperti da contratti scaduti. La durata media della vacanza contrattuale è di 24,9 mesi, con picchi di oltre 40 mesi nel pubblico impiego e quasi 70 nel comparto istruzione e ricerca. Un’inerzia che ha bruciato potere d’acquisto: tra il 2019 e il 2024 le retribuzioni contrattuali sono cresciute dell’8,3%, mentre l’inflazione cumulata ha toccato il 17,4%.
La fotografia dei rinnovi è diseguale. Nel comparto sanità il contratto 2022-24, firmato a giugno, prevede un aumento medio di 172 euro al mese per 550mila operatori e il via alle trattative per il triennio successivo.
La scuola, invece, resta ferma. La proposta Aran – presentata come “valorizzazione” del personale – prevede 136 euro lordi di aumento, un bonus una tantum da 142 euro e arretrati medi di 1.450. «Un maquillage pre-elettorale», ha replicato la Flc-Cgil, ricordando che l’erosione del potere d’acquisto ha ormai superato il 10% per i lavoratori della conoscenza.
Le due velocità
Nello stesso settore pubblico, le funzioni centrali e gli enti locali hanno avviato negoziati con prospettiva di +280 euro a regime entro il 2027, mentre nel comparto agricoltura – circa un milione di lavoratori – nessun rinnovo è stato ancora siglato.
Nel privato la contrattazione corre solo dove conviene. I “vincitori” sono i comparti ad alta produttività: bancari (+435 euro), elettrici (+290), gas e acqua (+282), chimico-farmaceutico (+280) e logistica (+230/260). Hanno chiuso rinnovi triennali, spesso accompagnati da welfare aziendale e premi di risultato.
Restano invece al palo i metalmeccanici (1,5 milioni di addetti), ancora in trattativa per un aumento richiesto di 280 euro e una riduzione dell’orario a 35 ore. Gli industriali offrono 173 euro e propongono di allungare la durata contrattuale a quattro anni.
Peggio ancora per giornalisti e telecomunicazioni: il contratto Fnsi-Fieg è fermo dal 2016, con 15mila lavoratori ancora in attesa di un testo nuovo, mentre quello delle Tlc, scaduto da oltre due anni e mezzo, è stato riaperto a luglio senza un accordo.
Tra i casi più emblematici ci sono anche i multiservizi e le cooperative sociali, dove i contratti — che riguardano oltre 450mila persone, in gran parte donne con part-time involontario — sono scaduti rispettivamente nel 2019 e nel 2020. Il rinnovo del comparto pulizie, sorveglianza e mense è bloccato da più di cinque anni. In media, un lavoratore o una lavoratrice guadagna meno di 8 euro lordi l’ora, con un arretrato salariale che sfiora il 20%.
Le promesse
Mentre i tavoli di rinnovo procedono a due velocità, il governo prepara la manovra annunciando nuovi incentivi: una “mini Irpef” al 10% sugli aumenti derivanti dai contratti e — ipotesi più fragile — sugli adeguamenti automatici all’inflazione dopo 24 mesi dalla scadenza. In teoria, una sorta di “indicizzazione differita” per i lavoratori bloccati. In pratica, una misura non ancora scritta e tutta da finanziare.
Secondo stime del ministero del Lavoro, potrebbe riguardare fino a 15 milioni di dipendenti, ma il testo non esiste e le coperture non sono definite. «Un modo per rinviare i rinnovi promettendo sgravi futuri», osservano fonti sindacali.
L’idea si inserisce in una strategia più ampia: tassazione agevolata per straordinari e premi di produttività, fringe benefit fino a 4mila euro e conferma delle misure previdenziali (Quota 103, Opzione Donna, Ape Sociale). Un mosaico di micro-interventi, senza un piano organico per la crescita salariale.
Nel 2025, su circa 90 Ccnl monitorati, 35 restano scoperti. Solo il 56,3% dei lavoratori è coperto da contratti “in vigore per la parte economica”. Eppure, l’esecutivo parla di “stagione di rinnovi”. L’impressione è che la contrattazione sia usata come leva politica più che come strumento di redistribuzione: la sanità come vetrina di efficienza, la scuola come banco di propaganda, il pubblico impiego come serbatoio di bonus temporanei.
Fronte sindacale
Anche la dinamica sindacale riflette l’asimmetria. La Cisl mantiene un dialogo con Palazzo Chigi, la Uil attende, la Cgil denuncia un «uso strumentale della contrattazione». Tutto mentre l’Italia resta il peggior Paese del G20 per salari reali, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro: –8,7% dal 2008 al 2024.
E intanto cresce il rischio dei contratti “pirata”, firmati da sigle minoritarie e spesso peggiorativi, che coinvolgono secondo Confcommercio oltre 160mila lavoratori. È il segno di una contrattazione frammentata che, invece di garantire diritti minimi uniformi, apre a un dumping salariale interno senza precedenti.
L’annunciata indicizzazione automatica e la mini Irpef al 10%, se mai arriveranno, non cambieranno l’essenza del problema: un Paese dove la crescita dei redditi dipende più dalle manovre che dai contratti, e dove il lavoro continua a perdere valore anche quando lo si chiama “premio”.
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