Oltre il fine dining, cucinare d’istinto in montagna

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è come si salvano i ristoranti. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Parlare di fine dining oggi crea più di un malumore. Serpeggia tra i clienti della ristorazione e anche tra gli addetti ai lavori. Quello che sembrava l’apice di una carriera – per chef e sommelier – o il regalo da farsi almeno una volta l’anno – un pranzo o una cena impegnativi per lunghezza e costi – sta assumendo le sembianze di un elefante nella stanza (stellata o meno): troppi sacrifici, troppi costi, troppa distanza dal gusto e dai desideri palatali, lontano dalle emozioni più semplici. Il suo elitarismo poi pare essere poco consono allo spirito dei tempi. E allora si cercano alternative, dove il togliere anziché aggiungere non vuol dire rinunciare a creatività e competenza. È in questo solco che si inserisce la riflessione di Simone Cantafio, chef del ristorante stellato La Stüa de Michil di Corvara, in provincia di Bolzano, con esperienze importanti in Francia e in Giappone e che ha scelto la montagna – siamo in Alta Badia – come terreno di ricerca per una cucina d’autore senza formalismi. Il progetto si chiama Incö che in ladino significa “oggi” ed è un menù degustazione ma anche un presa di posizione: cucinare non con la testa piegata sulla tecnica, ma con l’istinto sintonizzato sulla natura. Il dilemma dei piattini, tra apericene e condivisione Allontanare l’ansia Non è per tutti: una degli otto posti disponibili a sera costa 230 euro e tra i piatti può capitare anche una parmigiana di melanzane, ma difficilmente la sera prima sarà identica a quella successiva: «Per Incö il prodotto non arriva su ordinazione, ma è quello che coltivatori, pescatori, allevatori possono procurarmi», spiega Cantafio, « e il paniere cambia a seconda della disponibilità, della stagione, del cambio climatico. Tutto ha i ritmi lenti e imprevedibili della montagna. Una volta che gli ingredienti sono in cucina ci chiediamo: cosa prepariamo per stasera?». La rete di fornitori è stata messa su in un anno di tempo, con giri in malga, negli orti, tra gli animali al pascolo. Lo chef ha soprattutto ascoltato e continua a farlo tutte le mattine con il consueto giro di telefonate e con le visite che cerca di rispettare ogni sabato: «Non posso sapere cosa troverò domani da un produttore o in un bosco», racconta, «e questo rende ogni piatto irripetibile. Non esiste standardizzazione, esiste solo l’oggi. L’idea è proprio questa: rifiutare l’ansia di controllo che spesso domina l’alta cucina e lasciare che sia la materia prima a dettare la strada». Un’ansia che Cantafio conosce bene e che descrive nel libro fotografico Incö, dove lui, calabrese di origine – le verdure arrivano ancora dall’orto di famiglia – ma nato e cresciuto nella periferia milanese non ha avuto problemi a raccontare dei pianti che si faceva a Parigi durante gli anni trascorsi nelle cucine dei grandi stellati. Sarà proprio uno dei suoi maestri, Michel Bras, a mandarlo cinque anni nell’isola di Hokkaido, in Giappone, a dirigere il suo ristorante con questa motivazione: «perché cucina più con il cuore che con la testa». Il caso Appointment Trader: se avere il tavolo è un business Senza formalismi Attenzione però, non si tratta di improvvisazione o superficialità. La tecnica è uno strumento al servizio della sensibilità e i rimandi alla tradizione nipponica kaseiki (tante piccole portate in tavola secondo il gusto del cuoco) non è casuale. La forza della proposta rimane nella mano tesa ai produttori di alta montagna: «Non ci sono storie – sottolinea in maniera netta lo chef – se devi lavorare ogni giorno su un menu diverso devi essere un bravo cuoco. E risparmi anche sul food cost del ristorante: lavorare sul fresco costa meno che fare ordini mensili. Certo, va gestita l’imprevedibilità, ma per me ha più senso comprare un animale intero a otto euro al chilo, che solo il carré a quaranta». Nella valli o in città, cosa significa sostenibilità: le scelte etiche e i contesti Questo patto tra fornitori, cucina e clientela, per Cantafio, nasce in montagna non a caso. Sono stati i posti periferici a ragionare per primi su un nuovo modo di concepire l’alta cucina, vuoi per una questione di reperibilità, vuoi per una ricerca di autenticità che il cliente si aspetta a duemila metri di altezza e meno in città: «Aggiungerei anche», continua, «la presenza di un dialogo tra il cuoco e l’attività sul territorio. A me basta aprire le finestre al mattino e capire cosa mi arriverà quel giorno e cosa no». [Missing Caption][Missing Credit]