A 34 anni dalla morte del giudice Scopelliti le forze dell’ordine hanno eseguito una perquisizione nell’abitazione di un uomo indagato per il delitto. Nel decreto di perquisizione emergono nuovi dettagli sul caso. Le intercettazioni sul giudice Carnevale
Si continua a cercare la verità sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso in un agguato nei pressi di Villa San Giovanni il 9 agosto 1991. A trentaquattro anni dall’esecuzione, le forze dell’ordine hanno condotto perquisizioni in vari luoghi collegati ai 24 indagati per il delitto alla ricerca di prove che possano testimoniare quello che è accaduto. E dal decreto di perquisizioni emergono dettagli nuovi su uno dei più importanti cold case di mafia.
Il pentito
Sono le 17,20 del 9 agosto 1991 quando il giudice Antonino Scopelliti transita con la sua Bmw 3181 lungo la strada che collega Villa san Giovanni a Piale di Campo Calabro. Il titolare di una stazione di rifornimento su quel tratto di strada, testimone del delitto, sente un rumore forte di una frenata improvvisa. Si volta pensando ad un incidente ma davanti ai suoi occhi si ritrova gli ultimi atti di un omicidio di mafia. Vede l’auto proseguire senza controllo prima di finire in un terrapieno.
Parte da qui la ricostruzione fatta dalla procura antimafia di Reggio Calabria di quello che accadde. L’atto, firmato dal procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, e dalla pm Sara Parazzan, delinea per la prima volta i contorni di un’inchiesta basata sulle dichiarazioni del pentito Maurizio Avola, che si è autoaccusato dell’omicidio del magistrato e ha fatto ritrovare il fucile usato nell’agguato.
Secondo il racconto di Maurizio Avola, a sparare contro il giudice Scopelliti sarebbe stato Vincenzo Salvatore Santapaola, figlio del boss Nitto. Il magistrato, appena rientrato dal lido Il Gabbiano a Santa Trada, sarebbe stato colpito a Piale da dodici colpi partiti da una moto guidata dallo stesso Avola. L’auto del giudice, dopo essere finita fuori strada e precipitata in una scarpata, sarebbe stata raggiunta da un’ulteriore raffica sparata da Santapaola, che nel frattempo era sceso dalla moto. L’arma indicata nel decreto di perquisizione è un fucile a canne mozze Zabala Hermanos, già ritrovato anni fa grazie alle indicazioni dello stesso collaboratore di giustizia.
L’alleanza tra mafie
Dal decreto di perquisizione emergono nomi di rilievo della criminalità organizzata calabrese e siciliana. «Non appare percorribile – si legge nel documento – l’ipotesi che il commando avesse potuto agire in territorio calabrese senza l’appoggio logistico, se non addirittura materiale, dei “casati” mafiosi reggini». Un omicidio, per di eccellente come quello di uno dei più importanti magistrati antimafia in Calabria, avrebbe inevitabilmente acceso un riflettore rendendo «facilmente prevedibile il dannoso effetto di risonanza e ricaduta in termini di controllo istituzionale sul territorio». Cosa nostra, in poche parole, non avrebbe potuto commettere il delitto in un territorio controllato da clan calabresi senza avere il benestare del gotha della ‘ndrangheta.
Ed infatti tra gli indagati spiccano i nomi di alcuni nomi di rilievo per la criminalità organizzata calabrese e siciliana. Ci sono i boss di Archi Pasquale Condello, detto il “Supremo”, e Giuseppe De Stefano (figlio di don Paolino De Stefano). Ci sono il boss di Africo Giuseppe Morabito e il boss di Limbadi Luigi Mancuso, pure lui definito il “Supremo”. C’è anche uno dei capi dell’alleanza delle ‘ndrine del milanese Franco Coco Trovato. Intanto dall’altro lato dello stretto le interlocuzioni con la mafia calabrese erano portate avanti da una catena di comando che inizia con Totò Riina e Messina Denaro e termina con Eugenio Galea, esponente di Cosa Nostra catanese che avrebbe ricevuto gli ordini. Ci sono, insomma, i capi delle due più potenti organizzazioni criminali del mondo riuniti per organizzare l’uccisione del giudice che in quel momento aveva tra le mani le sorti dell’organizzazione mafiosa siciliana, alla sbarra nel celebre maxi processo.
E proprio Matteo Messina Denaro, che «partecipò direttamente al commando che prese parte all’azione omicidiaria», avrebbe fornito le informazioni sul luogo idoneo a compiere il raid. Informazioni che sarebbero giunte al boss di Castelvetrano direttamente da Salvo Lima che avrebbe condiviso «le informazioni operative relative alle abitudini di vita del magistrato».
L’aggiustamento dei processi
D’altra parte la mafia siciliana aveva un canale privilegiato con la politica, ed in particolare con la Democrazia cristiana. Stando a quanto riportato nel decreto stesso, infatti, «vi era una vera e propria cordata per l’aggiustamento dei processi di mafia composta da Riina – Lima – Andreotti – Carnevale» che sarebbe testimoniata da un incontro tra Riina e i due esponenti democristiani nel 1988 per ascoltare le rimostranze di Cosa nostra alla svolta politica della Dc che aveva adottato una linea contraria gli interessi dei clan.
Il riferimento è al maxiprocesso a Cosa nostra e proprio «in quel contesto processuale – si legge nel decreto – emerse che Carnevale esprimeva giudizi di forte risentimento verso Falcone e Borsellino nonché verso Scopelliti di cui diceva che “conta meno di zero”».
Il riferimento è proprio al magistrato ucciso che nei mesi precedenti aveva espresso la «disponibilità ad occuparsi del maxiprocesso». Ed infatti Scopelliti «ricevette informalmente e non ufficialmente la delega alla trattazione del maxiprocesso quale Pg di udienza». Una nomina informale che, proprio grazie a quella cabina di regia capace di aggiustare i processi, era arrivata a conoscenza di Cosa nostra dando un impulso decisivo alla decisione di uccidere il giudice Scopelliti.
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