Fuori è già buio, lo squillo di un telefono viola il silenzio nella stanza. Giovanni Falcone, direttore generale degli Affari penali del ministero della Giustizia, trattiene il fiato. È da dieci lunghi anni che aspetta questo momento. «Abbiamo vinto», dice una voce. È quella di Vito D’Ambrosio, uno dei tre pubblici ministeri che hanno sostenuto la pubblica accusa in Cassazione. I testimoni presenti nella stanza raccontano di un sorriso che sembra una smorfia, di uno sguardo coperto da un velo di inquietudine. Una testimone è Liliana Ferraro, che è la vice di Falcone. Poi c’è il giovane magistrato Giannicola Sinisi. E con loro c’è anche Pietro Grasso, il giudice a latere del primo dibattimento celebrato nell’aula bunker di Palermo. Alle sei di sera del 30 gennaio 1992 il maxi processo è finito. E, per la prima volta nella sua storia, Cosa nostra siciliana è sconfitta. I capi hanno perso la faccia davanti al loro popolo: avevano promesso e non hanno mantenuto. Ergastoli, condanne, la sentenza non riconosce solo l’esistenza della mafia ma anche la sua struttura unitaria e il suo governo, la Cupola. Non era mai accaduto prima, per un secolo c’erano stati solo proscioglimenti e assoluzioni, boss sempre liberi e impuniti.

Fine dell’impunità

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (Foto LaPresse)

«Abbiamo vinto», ripete Giovanni Falcone, senza troppa convinzione, mentre qualcuno fa salire dal bar una bottiglia di champagne. È calda, si brinda lo stesso. Nella stanza entra Livia Pomodoro, il capo di gabinetto del ministro Claudio Martelli.

La prima telefonata è per il procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna. La seconda per Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che giù a Palermo si è inventato il pool per indagare sui morti e sui soldi di un’organizzazione criminale che per tutti era invincibile.

La terza telefonata è per Paolo Borsellino, l’amico palermitano di Giovanni Falcone. Poi il direttore degli Affari penali scompare nell’ascensore che scende dal quarto piano del palazzo piacentiniano di via Arenula, Liliana Ferraro lo rincorre e gli chiede: «Giovanni, c’è qualcosa che non va?». Lui risponde: «No, no, stavo solo pensando a cosa può accadere ora, credo che ci sarà inevitabilmente una reazione».

L’altra mafia silente

Foto AGF

Mancano 114 giorni al 23 maggio. L’anno prima, il 1991, si era chiuso malamente. Ed era iniziato anche peggio. D’estate poi, il 9 agosto, i sicari avevano assassinato Antonino Scopelliti, il magistrato che avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa in Cassazione contro la Cupola. Era in vacanza nella sua Calabria, lo hanno aspettato su una stradina fra villa San Giovanni e Campo calabro.

In Italia, in quel 1991, più di settecento erano stati gli omicidi riconducibili alle mafie, un primato spaventoso. Praticamente quasi il doppio di tutti i delitti, quattrocentonovanta, avvenuti dal 1969 al 1985 per mano di terroristi neri e rossi.

Turbolenze nel grande crimine e regolamenti di conti nei selvaggi territori meridionali. Come in Calabria, culla di una mafia chiamata ‘ndrangheta scambiata per troppo tempo per una banda di pastori barbari e che invece sarebbe diventata l’organizzazione criminale più potente del terzo millennio.

L’errore che ha contribuito a fare delle cosche calabresi un potere senza limiti fu considerarla una mafietta, buona solo a compiere rapimenti e rinchiudere i prigionieri nelle buche scavate sulle montagne dell’Aspromonte.

Senza capire, o facendo finta di non capire, che sequestrava uomini e donne e bambini ma contemporaneamente dialogava con apparati dello stato, condizionava la politica locale, gestiva il traffico di droga soppiantando anno dopo anno i narcos siciliani. E lo faceva attraverso le sue ramificazioni nel nord Italia e all’estero.

In Lombardia, per esempio, la ‘ndrangheta lavorava fianco a fianco con Cosa nostra e la camorra. Collaboratori di giustizia affidabili, ma solo in anni recenti, hanno ricordato ai magistrati antimafia di Reggio Calabria l’esistenza di un organismo chiamato “consorzio”: una struttura di governo composta da mafiosi calabresi, siciliani e campani, per gestire gli affari e il territorio lombardo e poi in tutte le regioni settentrionali.

Milano polveriera

Questa loggia criminale era attiva fin dai tempi in cui a Milano spadroneggiava un certo Vittorio Mangano, ufficialmente stalliere presso la villa ad Arcore di Silvio Berlusconi all’epoca solo uno dei più famosi industriali del paese. Mangano, tuttavia, era tutt’altro che un guardiano di cavalli: era un narcotrafficante della mafia siciliana e referente delle cosche palermitane a Milano.

Ed è proprio con Mangano che Marcello Dell’Utri tratterà per salvaguardare gli interessi economici di Berlusconi, Mangano scelto come “sponda” da Stefano Bontate e Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi, capi di Cosa Nostra.

L’eroe Mangano, così esaltato dal Cavaliere e da Dell’Utri, per aver rispettato la regola del silenzio davanti ai pubblici ministeri curiosi di conoscere quei rapporti con Berlusconi e con il suo consigliere, che da lì a qualche anno prenderanno in mano il governo dell’Italia.

Milano al pari di Palermo e Reggio Calabria era una polveriera pronta a esplodere. Un vecchio pentito disse a Falcone: «Dottore, qui la chiamate mafia, a Milano la chiamano corruzione».

Quattro mesi prima dell’attentato del 23 maggio l’inchiesta Mani Pulite iniziava a macinare indagati: il 17 febbraio 1992 è il giorno dell’arresto di Mario Chiesa, il primo “mariuolo” che provoca una slavina di avvisi di garanzia fino ad arrivare al capo dei socialisti Bettino Craxi. Le bombe, le mazzette, i morti ammazzati: eventi che accompagnano e, in alcuni casi, conducono alla fine della prima Repubblica.

Falcone l’emarginato

Giovanni Falcone nel suo studio (Foto AGF)

È tutto sottosopra nel 1992. Il verdetto che condanna i boss cancella stereotipi e scavalca le cattive abitudini di una magistratura giudicante che non vuole mai “vedere” la mafia. Anche in appello il maxi processo è stato indebolito, smontato, snaturato. Adesso però è il trionfo del giudice istruttore Giovanni Falcone.

Sono passati dieci anni dall’uccisione dell’onorevole Pio La Torre e del generale prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, dieci anni dalla legge sull’associazione mafiosa approvata dopo quei due delitti eccellenti, sono passati dieci anni da quando un dossier ha dato origine al maxi processo: il rapporto giudiziario “Michele Greco + 161”, Michele Greco il “papa” della mafia palermitana è il burattino in mano ai Corleonesi di Totò Riina più la crema del crimine nella provincia di Palermo.

Sulla scrivania di Falcone arriva nel luglio del 1982, l’estate della grande mattanza, i morti ammazzati solo in città sfondano quota cento. È la mappa di Cosa nostra aggiornata. Giovanni Falcone ci lavora sino al 1985 (con i giudici Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello) e poi costruisce quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che è il maxi processo.

Anni di passione e di tormento. Indaga e intanto uccidono il consigliere istruttore Rocco Chinnici, indaga e intanto uccidono i poliziotti Ninni Cassarà e Beppe Montana che sono gli investigatori a lui più vicini.

Nel tribunale di Palermo è solo. È solo in Sicilia, solo in Italia. Un giudice troppo diverso per piacere a una magistratura pacifica e paladuta, troppo audace il suo ”riformismo rivoluzionario” in un paese che sopravvive sulle convenienze e sui ricatti.

È temuto e adulato dalla politica, denigrato, guardato con sospetto. Lo chiamano “lo zar dell’antimafia”, lo accusano di fare «lo sceriffo», la stampa locale (Il Giornale di Sicilia) lo attacca ogni mattina in prima pagina, è umiliato, deriso.

Si candida a consigliere istruttore e gli preferiscono un anziano collega – Antonino Meli – che nulla sa di mafia, si fa il suo nome per diventare alto commissario contro il crimine organizzato e scelgono un magistrato – Domenico Sica – famoso perché apre inchieste che non arrivano mai alla fine, si mette in gioco per andare al Consiglio superiore della magistraura e lo bocciano, sta per diventare procuratore nazionale e lo fermano pure lì.

Sempre più emarginato, sempre più esposto, prima provano a delegittimarlo con lettere anonime e poi tentano di farlo saltare in aria il 21 giugno del 1989 fra gli scogli della borgata dell’Addaura.

Seviziato dalla sua corporazione, amatissimo e odiatissimo nella sua Palermo, il ministro della Giustizia Claudio Martelli lo vuole a Roma come direttore degli Affari penali. Alla fine del febbraio del 1991 comincia una nuova esistenza lontano, ma solo apparentemente, dalla Sicilia.

Una seconda vita, a Roma

Il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti con Giovanni Falcone (Foto AGF)

L’ultima indagine che firma è quella sui cosiddetti delitti politici, le uccisioni del presidente della regione Piersanti Mattarella, dell’onoreviole Pio La Torre, del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina.

Non avrebbe voluto farlo, avrebbe preferito indagare di più sulla morte di Pio La Torre collegandola con l’organizzazione segreta Gladio ma il procuratore capo di Palermo Piero Giammanco non glielo permette. Un’altra mortificazione. E alla fine, a malincuore, per senso del dovere, mette il suo nome sotto quelle carte.

Sono i pensieri che scivolano nella mente di Giovanni Falcone quando, la sera della sentenza di Cassazione del maxi processo, squilla il telefono al ministero. È la fine di una vita e l’inizio di un’altra. Ancora non sa che a Roma ci sono sei mafiosi saliti da Palermo apposta per lui.

Sono lì da da qualche settimana. Controllano i suoi movimenti davanti a via Arenula, lo cercano nei ristoranti fra l’isola Tiberina e Campo de’ Fiori, si preparano a ucciderlo. L’ordine viene da Totò Riina che, intuito l’incerto esito del maxi processo in Cassazione, invia una squadra di sicari nella capitale.

«Dobbiamo rompere le corna a qualcuno», sibila il capo dei capi davanti a tutti i boss della Cupola alludendo agli amici che non lo hanno garantito, primo fra tutti Salvo Lima, l’uomo politico più potente della Sicilia, vicino ai mafiosi e vicino anche a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro della Repubblica.

E aggiunge ai suoi Riina: «Loro hanno fatto la Superprocura noi faremo la SuperCosa». Quei sei sicari spediti a Roma sono alle dipendenze solo della SuperCosa.

Ma perché Totò Riina  è così sicuro che al maxi ci saranno condanne di massa? Perché il giudice Falcone da quando è a Roma ha fatto più danni che a Palermo. Hanno tirato tutti un sospiro di sollievo quando il giudice se n’è andato dalla Sicilia, non hanno capito però che era più pericoloso là, nella capitale, alla direzione degli Affari penali.

In undici mesi, quelli che vanno dal febbraio 1991 al gennaio 1992, predispone un “pacchetto antimafia” che poi i ministri della Giustizia Claudio Martelli e dell’Interno Vincenzo Scotti spingono all’estremo e costringono il capo del governo Andreotti a firmare.

È il paradosso italiano. L’uomo politico più compromesso con la mafia, nella decima legislatura, approva le leggi più severe in materia antimafia della nostra Repubblica. Scherzi del destino.

Ma Giovanni Falcone, da direttore degli Affari penali, fa anche altro. E di decisivo. Ordina un monitoraggio su 12.500 provvedimenti emessi dalla prima sezione della Cassazione, quella presieduta da Corrado Carnevale, un magistrato che è conosciuto come "l’ammazzasentenze”, uno che ha invalidato quasi cinquecento verdetti di processi di mafia e terrorismo, uno che sbeffeggia Falcone a ogni occasione, uno che aspetta il maxi processo per distruggerlo e distruggere il giudice che l’ha creato.

Ma agli Affari penali decidono una ”rotazione” dei presidenti della prima sezione della Suprema corte: il giudice Carnevale è fuori gioco, Falcone segnato. Eppure l’ex giudice istruttore palermitano pensa di essere al sicuro a Roma, passeggia sul Lungotevere senza scorta, incontra qualche amico in trattoria, si sente libero. Sa che prima o poi lo uccideranno, ma che lo uccideranno a Palermo.

«Deve morire a Palermo»

La strage di Capaci (Foto AGF)

Poi arriva il 12 marzo, l’esecuzione di Salvo Lima. Il giudice si precipita in Sicilia e avverte: «Da questo momento può succedere di tutto». Mentre in Sicilia la mafia di Riina chiudeva i conti con i “traditori” e si preparava a eliminare i nemici, i clan fuori dai territori del mezzogiorno gestivano commesse milionarie.

La camorra si stava inserendo nei primi lavori dell’alta velocità, sulla tratta Napoli-Roma, sulla Salerno-Reggio Calabria ogni cantiere doveva trasformarsi in un entrata sicura per la ‘ndrangheta.

Da Roma a Torino cominciano a emergere le prime collusioni tra cosche e politici di luoghi, a detta dei negazionisti del crimine, immuni dall’infiltrazione mafiosa. E già, dall’infiltrazione, ma non dal radicamento che è cosa diversa e più profonda, vuol dire diventare parte integrante della società e del mercato: le mafie lo erano in Emilia, Liguria, Piemonte, Lombardia, fin dagli anni Settanta.

Ma non interessava a nessuno. Non faceva notizia, a differenza dei sequestri di persona, una garanzia per cronisti e direttori di giornale che alimentavano il racconto stereotipato del sud.

Giovanni Falcone sa perfettamente che la mafia sta alzando il tiro. Vuole colpire in alto. E non solo lui. Vuole colpire la politica che in Italia ha voltato le spalle a Cosa nostra.

Il marzo del 1992 annuncia la primavera e l’estate di sangue che verrà. Quattro giorni prima dell’omicidio di Lima - l’8 di marzo - il capo della polizia Vincenzo Parisi trasmette un telegramma, destinatari i comandanti generali dei carabinieri e della finanza, i direttori dei servizi segreti, i questori e i prefetti italiani. Invita a vigilare su possibili attentati, ricorda le minacce appena ricevute dal presidente del Consilgio Giulio Andreotti e dai ministri Calogero Mannino e Carlo Vizzini.

L’allarme è innescato da una lettera inviata ai giudici di Bologna da un detenuto coinvolto nei depistaggi sulla strage alla stazione, si chiama Elio Ciolini, racconta di un piano di destabilizzazione da parte delle destre europee e cita un summit a Zagabria.

Qualche giorno dopo l’uccisione di Lima questo Ciolini torna a scrivere ai giudici di Bologna, insiste sull’apertura di una campagna stragista e sul rischio che corre «il futuro presidente della Repubblica» Giulio Andreotti. Il capo della polizia lancia un altro allarme. Ma Andreotti liquida Ciolini come «un pataccaro».

Intanto a Palermo tornano i sei sicari della SuperCosa. Totò Riina li fa rientrare. Il giudice Falcone deve morire ma non a Roma: deve morire a Palermo. E non “sparato”: deve morire in un altro modo. I boss di Cosa nostra si preparano al massacro.

C’è Giovanni Brusca che è il figlio di Bernardo, l’amico più fidato dello “zio Totò”. C’è Pietro Rampulla, un artificiere, metà mafioso e metà fascista di Ordine nuovo. Ci sono i Ganci della Noce, c’è Totò Cancemi di Porta Nuova, c’è Salvatore Biondino, c’è Leoluca Bagarella. E tanti altri ancora.

Trovano le micce e i radiocomandi, cominciano a fare le prove di velocità sul sentiero che corre parallelo all’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi scende verso Palermo, cercano su una collina il punto migliore di osservazione, individuano il canale sotto il manto stradale dove piazzare l’esplosivo. Provano e riprovano. E aspettano.

A Roma intanto non riescono ad eleggere il nuovo presidente della Repubblica, quindici scrutini e quindici fumate nere. Mancano ventiquattro ore al 23 maggio. Una piccola agenzia giornalistica, “Repubblica”, vicina al deputato Vittorio Sbardella della corrente andreottiana della Democrazia cristiana, avvisa di «un botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario» che potrebbe influire sulla scelta del nuovo capo dello stato.

Premonizioni. Il giorno dopo Giovanni Falcone salta in aria. Sono trascorsi trent’anni, c’è da scommettere che una cosa non mancherà durante le commemorazioni: l’ipocrisia del potere.

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