- Alle sei di sera del 30 gennaio 1992 il maxi processo è finito. E, per la prima volta nella sua storia, Cosa nostra siciliana è sconfitta. Ma il magistrato Giovanni Falcone non è tranquillo: «Credo che ci sarà inevitabilmente una reazione».
- Ma in quegli stessi anni la mafia sale più a nord. Milano al pari di Palermo e Reggio Calabria era una polveriera pronta a esplodere. Un vecchio pentito disse a Falcone: «Dottore, qui la chiamate mafia, a Milano la chiamano corruzione».
- Nel tribunale di Palermo è solo. È solo in Sicilia, solo in Italia. Un giudice troppo diverso per piacere a una magistratura pacifica e paladuta, troppo audace il suo “riformismo rivoluzionario” in un paese che sopravvive sulle convenienze e sui ricatti. Sono trascorsi trent’anni dalla morte del giudice, c’è da scommettere che una cosa non mancherà durante le commemorazioni: l’ipocrisia del potere.
Fuori è già buio, lo squillo di un telefono viola il silenzio nella stanza. Giovanni Falcone, direttore generale degli Affari penali del ministero della Giustizia, trattiene il fiato. È da dieci lunghi anni che aspetta questo momento. «Abbiamo vinto», dice una voce. È quella di Vito D’Ambrosio, uno dei tre pubblici ministeri che hanno sostenuto la pubblica accusa in Cassazione. I testimoni presenti nella stanza raccontano di un sorriso che sembra una smorfia, di uno sguardo coperto da un velo d



