Nessuna legge che riconosca il reato, nessun sistema che lo registri. Centodieci aggressioni contro persone LGBT denunciate in un anno. Una ogni tre giorni. La punta dell’iceberg di un fenomeno che resta sepolto da poche denunce e una scarsa registrazione da parte delle forza dell’ordine. La violenza fisica e politica cresce ma lo Stato tace
Centodieci aggressioni dall’inizio dell’anno. Una ogni tre giorni. In Italia, ogni settantadue ore, qualcuno – per strada, a scuola, in casa – ha deciso che il corpo di una persona Lgbt poteva essere colpito. Calci, pugni, bastonate, sputi. Umiliazioni. È la crudeltà la cifra del report che quest’anno Arcigay pubblica in occasione della giornata mondiale contro l’omotransfobia del 17 maggio.
A Santa Cesarea Terme, in provincia di Lecce, un uomo viene massacrato nel parcheggio di una discoteca. Cinque giovani lo prendono a calci e pugni alla testa, poi gli staccano il lobo dell’orecchio. «Frocio di merda», urlano. Tra gli aggressori il leader di Blocco Studentesco. A Perugia un ragazzo di 22 anni viene accoltellato per aver difeso l’amico omosessuale vittima di omofobia.
A Varese una coppia denuncia: «Siamo perseguitati dai nostri vicini di casa omofobi. Nessuno ci ascolta. Venderemo casa e ci trasferiremo». A Roma viene sventato il piano eversivo di una cellula di suprematisti bianchi: armi, campi di addestramento, metodi di reclutamento: «Uccideremo i gay».
Nel report di Arcigay ci sono numeri, ma dietro quei numeri ci sono nomi, volti, genitori, figli. C’è chi si è tolto la vita a Milano, a Napoli, a Palermo. Ragazzi con nome e cognome che lasciano una testimonianza, che le famiglie scelgono di rendere pubblica perché indica il movente spesso opaco di un suicidio: omotransfobia.
Il report evidenzia nuovi fenomeni. Le aggressioni spesso sono organizzate: vere e proprie gang omofobe, bande di adolescenti e adulti che inseguono, filmano, accerchiano. Sorridono mentre colpiscono. Si passano i video. Li condividono.
E poi c’è la casa. Il rifugio che diventa trappola. Due casi ci parlano dei genitori in manette per le violenze sui figli Lgbt. A Napoli un padre non poteva accettare che il figlio di quindici anni fosse gay, così lo ha minacciato di morte e l'ha colpito con una chiave inglese al volto, alle gambe, al collo. Solo grazie all’intervento della scuola l’adolescente ha denunciato tutto. Il ragazzo è finito in una comunità protetta, il padre è stato rilasciato e accolto dal quartiere con fuochi d’artificio, una festa in piena regola segnale di approvazione e sostengo dell’omofobia. Maria, di diciannove anni ha invece raccontato: «A settembre mi hanno picchiata con un bastone. Volevo suicidarmi, l'ho detto a mia madre. Lei mi ha detto che sarebbe venuta a piangere al cimitero». Controllata tramite Gps, poi seviziata dai genitori e chiusa in casa. La colpa: aveva una relazione con una donna.
Le sedi di Arcigay vandalizzate, imbrattate, devastate. Nella notte entrano, distruggono, lasciano scritte d’odio sui muri. Sono attacchi politici, culturali, ideologici. Ma anche materiali, concreti. E quasi sempre impuniti. E poi c’è tutto che scivola via dalle maglie del report. Il pulviscolo dell’omofobia. La richiesta di diritti della comunità arcobaleno indicata dal Governo Meloni come ideologia gender, la persecuzione delle Famiglie Arcobaleno, gli attacchi ai servizi sanitari per le persone transgender. È la colla che tiene insieme l’odio.
Una guerra culturale a cui si unisce quella quotidiana contro le persone. I loro corpi. Le loro vite. Ma il dato non grida. Sussurra. Il report di Arcigay resta impreciso. Episodi raccontati come “unici” che hanno dentro un moltiplicatore implicito: a Padova, dove un gruppo squadrista composto da almeno dieci ragazzi tra i 15 e i 23 anni ha messo in atto spedizioni punitive omofobe contro almeno dieci vittime nella zona industriale, secondo le indagini della Procura. E pure basandosi su una reading list di oltre 40 fonti giornalistiche soffre di un gravissimo under-reporting (poche denunce), secondo Arcigay, solo 1 persona su 4 denuncia l’aggressione subita: «Non servirebbe a nulla» o «Non ne vale la pena, tanto succede di continuo».
Un altro 23% delle vittime non si fida delle autorità. A seguire c’è un grave under-recording (scarsa registrazione): anche quando le vittime denunciano, le forze dell’ordine non sempre registrano correttamente il movente d’odio, perché manca una normativa che riconosca e classifichi l’omotransfobia come aggravante autonoma. Per questo in tutti i documenti dell’Oscad (Osservatorio per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori), cioè l’organismo interforze, formato da Polizia di Stato e Carabinieri, nato nel 2010 su iniziativa del ministero dell’Interno si legge: «I dati relativi alle segnalazioni OSCAD non consentono di valutare il fenomeno dei crimini d’odio da un punto di vista statistico»
Il confronto con altri Paesi rende ancora più evidente il problema. Per lo stesso anno la Gran Bretagna ha registrato: 27,619, segnalazioni di crimini d’odio motivati da orientamento sessuale o identità di genere, su un totale di oltre 140mila crimini d’odio. In Italia solo 111. Questo non perché da noi il fenomeno sia più raro, ma perché non viene né segnalato né rilevato correttamente. Il numero basso di denunce non indica una minore violenza, ma una minore protezione legale, minor fiducia nelle istituzioni che ogni anno si polverizza sotto le dichiarazioni violente del Governo.
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