Un uso esagerato e sbagliato degli antibiotici che tanti italiani usano erroneamente anche per curare i virus, oltre alla mancanza di presidi di sorveglianza, soprattutto al sud. Eppure, il mondo continua a ignorare uno sviluppo che rischia di tornare a rendere infezioni comuni potenzialmente mortali
Nessuna sirena, nessun bollettino giornaliero. Eppure, una pandemia è già in corso. Non contagia con la rapidità del Covid, non riempie le prime pagine. Ma secondo i dati del Center for Global Development (Cgd) potrebbe causare entro il 2050 più morti e più danni economici di qualsiasi altra emergenza sanitaria moderna. Si chiama antibiotico-resistenza (Amr): è la capacità, acquisita da molti batteri, di sopravvivere anche agli antibiotici più potenti. Il risultato è che infezioni comuni — urinarie, respiratorie, cutanee — diventano potenzialmente mortali. Un ritorno al Medioevo terapeutico. Eppure, il mondo continua a ignorarla.
Lo studio del Cgd, finanziato dal governo britannico, stima che senza contromisure i superbug potrebbero causare fino a 10 milioni di morti l’anno entro il 2050, con danni all’economia globale per 2.000 miliardi di dollari l’anno. Si tratta di cifre superiori a quelle della pandemia di Covid-19. Secondo i dati pubblicati su The Lancet l’Amr ha già causato 1,27 milioni di decessi diretti nel 2019 e contribuito ad altri 5 milioni. Numeri destinati a salire: negli over 70 la mortalità legata alla resistenza antimicrobica è aumentata dell’80 per cento in trent’anni e si prevede un ulteriore +146 per cento entro il 2050.
L’esplosione delle spese
I costi sono enormi. Solo negli Stati Uniti il sistema sanitario potrebbe dover sostenere fino a 57 miliardi di dollari annui in spese aggiuntive, con una contrazione dello 0,4 per cento della forza lavoro. Nell’Unione europea le perdite al Pil raggiungeranno 187 miliardi l’anno. «Oggi la minaccia dell’Amr cresce e, senza un’azione immediata, potremmo perdere l’efficacia dei farmaci che abbiamo. Una semplice infezione potrebbe tornare a uccidere» ha dichiarato il professor Mohsen Naghavi, dell’Institute for Health Metrics and Evaluation.
L’Italia è al centro di questo scenario. Con circa 12.000 decessi annui attribuiti all’Amr, rappresenta un terzo di tutte le morti da infezioni resistenti in Europa. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il nostro paese ha tassi di resistenza tra i più alti al mondo. Il 28,1 per cento delle Klebsiella pneumoniae isolate nel 2023 erano resistenti ai carbapenemi, antibiotici di ultima linea. Nelle terapie intensive si supera il 37,6 per cento. Peggio ancora per gli Enterococcus faecium: resistenti alla vancomicina nel 32,5 per cento dei casi, più che triplicati in otto anni. E gli Acinetobacter spp., con il 75,8 per cento di ceppi resistenti, mostrano un livello di rischio considerato “estremo” dallo stesso ministero della Salute.
L’uso esagerato
Anche sul piano dei consumi il quadro è sconfortante. L’ultimo Rapporto OsMed dell’Aifa documenta per il 2023 un aumento del 5,4 per cento rispetto all’anno precedente: 22,4 dosi giornaliere ogni 1.000 abitanti, con picchi al Sud che arrivano a 18,9 contro le 12,4 del Nord. L’Italia è tra i paesi europei con il maggior uso di antibiotici ad ampio spettro, quelli che dovrebbero essere usati con cautela. Il nostro indicatore Esac è pari a 13,6, quasi triplo rispetto alla media Ue (5,5). Solo il 54,4 per cento degli antibiotici rimborsati appartiene alla classe “Access”, quella di prima linea, ben al di sotto del target Oms del 60 per cento.
Le ricadute ovviamente sono anche economiche. Il costo dell’Amr per il Servizio Sanitario Nazionale oscilla tra 1,5 e 2,4 miliardi di euro l’anno ma, secondo uno scenario di proiezione realizzato dal Ceis dell’Università di Tor Vergata, si potrebbero raggiungere i 13 miliardi entro il 2050. Le infezioni ospedaliere correlate all’assistenza (Ica) ne sono il principale veicolo: in Italia ne è colpito l’8,2 per cento dei pazienti ricoverati, contro una media Ue del 6,5 per cento. Oltre 200mila casi l’anno potrebbero essere evitati con l’igiene delle mani e il rispetto dei protocolli.
La falsa informazione
Le cause? Non solo cliniche. Secondo Eurobarometro, il 60 per cento degli italiani crede ancora che gli antibiotici curino i virus. Un italiano su cinque pensa sia giusto interrompere la terapia appena i sintomi migliorano. La disuguaglianza territoriale aggrava la crisi: nel Sud mancano laboratori diagnostici e presidi di sorveglianza. Negli ospedali periferici non si identificano tempestivamente i ceppi resistenti, e il risultato è una diffusione incontrollata.
Eppure, le soluzioni esistono. L’approccio “One Health” — che integra salute umana, veterinaria e ambientale — è già adottato dal Piano Nazionale di Contrasto all’Amr (Pncar 2022-2025). Ma resta sulla carta. La sorveglianza è fragile, l’attuazione disomogenea, e l’Italia ha addirittura perso fondi europei per incapacità progettuale locale.
Lo studio del Cgd è chiaro: investire oggi in nuovi antibiotici, vaccini e diagnostica avanzata può generare ritorni enormi. Solo negli Stati Uniti il guadagno stimato è di 156,2 miliardi di dollari annui. In Europa ogni euro investito in ricerca ha un ritorno undici volte superiore. Il punto è se siamo disposti a guardare dove nessuno guarda. Se abbiamo capito, finalmente, che la medicina moderna si regge su un equilibrio fragile e che la fine degli antibiotici funzionanti è un problema più grande di quanto sembri.
«L’Amr è una pandemia silente che costa già 2,4 miliardi al nostro Ssn. Serve un approccio globale: uso consapevole degli antibiotici, prevenzione ospedaliera e ricerca» ha dichiarato il presidente dell’Aifa Roberto Nisticò. Ma mentre la politica rincorre le emergenze più fotogeniche, l’Italia resta tra i paesi più colpiti da una crisi che cresce ogni giorno. In silenzio.
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