Paola non può essere solo un nome su una targa, né un ricordo da rispolverare ogni luglio. Deve restare una ferita aperta nella coscienza collettiva. Perché la dignità del lavoro non può essere un lusso. Deve essere la base di ogni sistema alimentare che voglia dirsi giusto. E finché ci saranno donne e uomini costretti a morire nei campi per pochi euro, il nostro cibo non sarà mai davvero buono
Dieci anni. Sono passati esattamente dieci anni dalla morte di Paola Clemente. Un tempo più che sufficiente per cambiare le cose. Un tempo che avrebbe potuto segnare una svolta. Dieci anni dopo, però, lo sfruttamento nei campi non è scomparso. Ha solo assunto nuove forme. È diventato più silenzioso, più difficile da raccontare, da vedere. Ma è ancora lì.
Il 13 luglio del 2015 è una di quelle date da scolpire nella memoria collettiva. Quella mattina Paola Clemente muore stroncata da un malore nelle campagne di Andria mentre si occupava dell’acinellatura dell’uva, cioè dell’eliminazione a mano di piccoli acini dai grappoli. Morta di fatica, di sfruttamento.
Aveva 49 anni, una famiglia, un marito e dei figli, e faceva la bracciante. Una di quelle lavoratrici che ogni estate si alzano prima dell’alba, prendono un pullman, raggiungono i campi e si piegano per ore sotto il sole per pochi euro all’ora. Quella mattina Paola non ce l’ha fatta. Non per un incidente, non per una fatalità, ma per un sistema di lavoro organizzato sullo sfruttamento e sull’impunità.
Lo sfruttamento è sistema
Faremmo errore a pensare che la morte di Paola sia stata un’eccezione. Al contrario, è stata conseguenza più evidente di un modello agricolo fondato sulla compressione dei costi. Un modello che scarica la competizione globale e le logiche della grande distribuzione sempre più a valle, sull’anello più debole della catena: chi raccoglie, chi impacchetta, chi carica e scarica.
Un modello che continua a considerare il lavoro agricolo come un costo da ridurre, mai come un valore da riconoscere. Dieci anni dopo, il lavoro nei campi resta uno dei più pericolosi, più faticosi e meno pagati d’Italia.
E dopo questi lunghissimi dieci anni, dobbiamo anche dirci la verità: l’agricoltura continua a reggersi ancora troppo spesso su una manodopera fragile, sottopagata, ricattabile. E la cronaca ce lo ricorda con una frequenza spietata. Il 19 giugno del 2024, è morto Satnam Singh, bracciante indiano. Era stato vittima di un incidente in provincia di Latina due giorni prima. Il padrone lo ha abbandonato davanti casa con un braccio amputato di netto da un macchinario agricolo.
La morte di Paola Clemente irrompe nelle nostre vite in una di quelle estati torride in cui il caldo toglie il respiro. Solo una settimana prima, Abdullah Mohamed, 47 anni, bracciante sudanese, era morto nei campi di Nardò, in Salento, dopo ore sotto il sole, pagato due euro l’ora. Ma la morte di Paola, italiana, non finisce in un trafiletto come tante altre. Diventa notizia nazionale.
Perché era una donna, perché italiana, e perché ci sbatteva in faccia una verità ineluttabile: lo sfruttamento non fa distinzioni. Colpisce uomini e donne, italiani e stranieri. Senza volto, senza voce, senza diritti.
Da quella tragica morte qualcosa, lentamente, ha iniziato a muoversi ed è da quel preciso momento che la legge 199 del 2016 contro il caporalato, per quanto fosse richiesta da anni, ha preso forma. Una legge importante che ha introdotto nuovi strumenti di contrasto, rafforzato i controlli, messo al centro la responsabilità dell’intera filiera.
Nuovi metodi e promesse tradite
Come denunciato dall’ultimo rapporto dell’associazione Terra!, il caporalato in questi anni ha cambiato pelle. Non è più solo quello dei furgoni scassati e dei campi del Sud. Oggi è sempre più presente anche al Nord, sotto forme più sofisticate, meno visibili, ma altrettanto pericolose. È il caporalato dal colletto bianco, che opera dentro le filiere legali attraverso false cooperative, appalti irregolari, intermediazioni opache. Un caporalato che fa meno notizia, ma che continua a prosperare, anche nelle aree più ricche del paese.
E poi ci sono le promesse mancate. Come denunciato da molte realtà – a partire dalla Flai Cgil - il Piano nazionale di ripresa e resilienza aveva stanziato 200 milioni di euro per superare i ghetti in cui vivono migliaia di braccianti stranieri. Solo alla Puglia spettavano 114 milioni. Eppure, a oggi, quei fondi non sono stati utilizzati. I progetti non sono partiti, i bandi sono rimasti fermi, le risorse rischiano di andare perdute. Come se la dignità abitativa dei lavoratori fosse un tema secondario. Come se chi vive nei ghetti potesse aspettare.
A dieci anni dalla sua morte, Paola non può essere solo un nome su una targa, né un ricordo da rispolverare ogni luglio. Deve restare una ferita aperta nella coscienza collettiva. Perché la dignità del lavoro non può essere un lusso. Deve essere la base di ogni sistema alimentare che voglia dirsi giusto. E finché ci saranno donne e uomini costretti a morire nei campi per pochi euro, il nostro cibo non sarà mai davvero buono.
© Riproduzione riservata



