Quando Lucia ha iniziato il dottorato (il nome è di fantasia, così come gli altri citati in questo articolo), ha scoperto che fare ricerca può voler dire anche sfruttamento: «Si lavora ai propri studi, si insegna, si fanno i corsi extra per tirar su qualche soldo, si seguono i tesisti, si scrivono gli articoli (che poi firmano i superiori che li hanno solo letti), si seguono i progetti gestiti dai propri supervisori e si fanno lavori di segreteria».

Il tutto in un contesto di precarietà, salari bassi o assenti e sovraccarico di lavoro, mentre l’incertezza su cosa succederà al termine del percorso è totale. «Se si parla, ci si lamenta o si prova a cercare un’alternativa, si viene tagliati fuori».

L’undicesima indagine nazionale dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (Adi) rivela che, su 7mila dottorandi intervistati, il 27 per cento soffre di sintomi indicati come gravi o molto gravi su una scala scientifica di misurazione dell’ansia, mentre il 36 per cento ha una situazione simile per quanto riguarda la depressione e il 37 per cento per lo stress. Per molti di loro, tachicardia, senso di oppressione e attacchi di panico sono quotidiani.

«Questi valori, nettamente più alti di quelli riscontrati nella popolazione generale, ma anche di quelli riportati in studi scientifici su dottorandi e dottorande all’estero, rappresentano una vera e propria emergenza», dicono gli autori dello studio.

Una condizione di disagio diffusa

Sovraccarico di lavoro e scarsa retribuzione, a fronte di una borsa che in media sfiora i 1.200 euro netti al mese, sono tra i fattori ambientali che più influiscono su questa condizione di disagio diffusa. Nelle università, poi, la salute mentale dipende anche dall’atomizzazione del lavoro. Se quasi tutti i dottorandi delle discipline Stem sono organizzati in gruppi di ricerca, chi lavora da solo, affiancato esclusivamente dal proprio supervisore, è la maggioranza dei dottorandi di materie giuridiche, economico-statistiche e sociali, con una punta del 74 per cento nel caso delle scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche.

Ma proprio l’assenza di tutele contrattuali espone la categoria all’arbitrio di supervisori, collegio docenti e uffici amministrativi. Così per i dottorandi il diritto alle ferie, alla malattia e alla maternità o alla paternità dipende da cosa decidono di volta in volta professori e segreterie. Lo stesso rapporto di dipendenza si crea anche in situazioni di ordinario sfruttamento.

La salute mentale

Tra le persone intervistate da Domani, Giulia racconta di aver deciso di abbandonare un progetto che era stata invitata a seguire dalla supervisora del suo dottorato perché l’orario di lavoro non veniva rispettato e, anziché fare ricerca, la mansione assegnata era di tipo amministrativo. «Da allora lei ha smesso di considerarmi: i progetti che mi aveva promesso sono stati assegnati ad altri e il suo interesse nei confronti della mia ricerca (o semplicemente di me come essere umano) è sparito».

Dopo questa esperienza, Giulia si è sentita destabilizzata e ha iniziato un percorso di psicoterapia offerto dallo sportello universitario. Non esiste tuttavia un sistema di supporto psicologico comune e ogni università offre questo servizio nella forma che ritiene idonea. Di solito si tratta di quattro sedute complessive all’anno, spesso scarsamente accessibili. I professionisti, infatti, sono pochi e non riescono ad accogliere tutte le richieste.

Secondo lo studio dell’Adi, a soffrire psicologicamente sono soprattutto le donne, che subiscono di più la precarietà economica e contrattuale oltre alla cattiva qualità del lavoro. Rispetto ad ansia, depressione e stress, il gender gap nella salute mentale tra dottorandi e dottorande è compreso tra il 10 e il 15 per cento.

Ma i dati mostrano che il divario di genere esiste anche in termini di retribuzione. Se in media la borsa delle dottorande è inferiore a quella dei dottorandi di 45 euro, un dottorando su tre ottiene una borsa superiore a quella minima (1.195 euro) contro una dottoranda su quattro, mentre un dottorando su cinque prende più di 1.400 euro al mese contro una dottoranda su sette.

Poche prospettive

Le possibilità di sostenere spese impreviste, pari a 100 euro mensili, o di riuscire a risparmiare ogni mese, sono inoltre di meno per le dottorande rispetto ai loro colleghi uomini. Maggiormente dipendenti dal supporto economico delle famiglie, le dottorande che non riuscirebbero a sostenere un imprevisto economico sono il 56 per cento, i dottorandi il 45 per cento. Una differenza che si può notare anche tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche, che sono generalmente sotto finanziate, si legge nella ricerca. Al contempo il divario si allarga al Sud, dove le dottorande sono il 5 per cento più svantaggiate rispetto alle colleghe del Nord.

A luglio 2022 le borse per i dottorati sono state aumentate di circa 65 euro mensili, ma secondo Rosa Fioravante, Segretaria nazionale dell’Adi, l’inflazione ne ha annullato i possibili effetti positivi e il numero di dottorandi e dottorande che non riescono ad arrivare a fine mese è salito dall’11 al 14 per cento nell’ultimo anno. La crisi abitativa, con una crescita del costo degli affitti superiore al 10 per cento nelle principali città universitarie italiane, è tra i principali responsabili di questo peggioramento.

Anche le prospettive di carriera dopo il dottorato percepite come un miraggio sono più diffuse tra le donne che tra gli uomini. Non a caso, in Europa, la metà dei dottorati sono condotti da donne, ma solo il 30 per cento degli articoli scientifici è a firma di autrici femminili e il 33 per cento di chi lavora nel mondo della ricerca è composto da donne, dice uno studio di Lancet. A occupare posizioni apicali come quello di professoressa ordinaria, direttrice di dipartimento o di centri di ricerca è solo il 26 per cento di loro.

*I nomi utilizzati sono di fantasia per tutelare la privacy delle intervistate

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