Caso Shalabayeva infinito: condannati i poliziotti, ma resta il giallo dei mandanti

«Una sentenza giusta, grazie a tutti». Alma Shalabayeva è commossa. Commenta la decisione dei giudici della Corte d’appello di Firenze quasi incredula: i cinque poliziotti imputati nel processo bis sulla sua espulsione dall’Italia nel 2013 sono stati condannati a vario titolo a cinque e a quattro anni di reclusione. Accusati di sequestro di persona, gli alti funzionari Renato Cortese, Maurizio Improta, Francesco Stampacchia, Luca Armeni e Vincenzo Tramma hanno già annunciato ricorso e incassato la solidarietà del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. «Sono stati condannati servitori dello Stato con un curriculum importante e una vita trascorsa a lavorare per affermare i principi di legalità e giustizia», le parole del capo del Viminale a seguito della pronuncia dei giudici toscani che, alla fine, hanno confermato la sentenza di primo grado del tribunale di Perugia. Il caso Shalabayeva è aperto. Mancano i mandanti politici I fatti I fatti risalgono a oltre dieci anni fa. E in particolare a quando l’ambasciatore kazako a Roma, Adrien Yelemessov, informa il ministro dell’Interno di allora, Angelino Alfano, della presenza sul territorio italiano di un «latitante», Mukhtar Ablyazov, che, secondo il diplomatico, avrebbe sottratto «ingentissime somme di denaro» in Kazakistan. Alfano affida la faccenda al suo capo di gabinetto, Giuseppe Procaccini, l’unico che, successivamente, rassegnerà le dimissioni. È così che scatta l’irruzione nella villa di Casal Palocco, dove avrebbe dovuto «nascondersi» il ricercato. Che, si scoprirà dopo, non essere un «latitante», ma un «dissidente politico». Quella notte, nella casa in cui la polizia fa irruzione, di Ablyazov non c’è traccia: sono invece presenti la moglie, Alma, e la figlia, Aula, di sei anni. Entrambe vengono espulse, con un decreto firmato con grande rapidità (siglato anche dal procuratore Giuseppe Pignatone, capo della procura di Roma dell’epoca), nonostante la decisione di rimpatrio potesse seriamente mettere a rischio l’incolumità delle due. Anche Pignatone ha un ruolo nella vicenda: è a piazzale Clodio che viene firmato il nulla osta che “condanna” Alma Shalabayeva e la figlioletta a tornare in Kazakistan. L’ultimo atto, questo, di quello che verrà definito «rapimento di Stato» e conclude una lunghissima catena di omissioni e leggerezze. A processo, sin da subito, finiscono solo i poliziotti, gli «esecutori materiali», dirà qualcuno, di scelte calate dall’alto. Da qui le convinzioni dei legali di Shalabayeva che hanno sempre sostenuto che «nella ricostruzione di questa vicenda mancasse un pezzo: chi ha dato gli ordini». Alfano, per esempio, scamperà alla mozione di sfiducia che aveva fatto traballare il governo guidato da Enrico Letta. Così come ha sempre aleggiato l’ombra di interessi economici in terra kazaka della colosso di stato Eni. Oggi il caso riguardante Alma e Aula sembra quasi ricordare quello sul torturatore libico Almasri, rimpatriato dall’esecutivo Meloni su un volo di Stato in uso ai servizi segreti. Per la vicenda del miliziano sono finiti sotto inchiesta i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano: le loro posizioni tuttavia sono state archiviate. Resta, invece, aperta quella della capa di gabinetto del Guardasigilli, Giusi Bartolozzi, indagata per false dichiarazioni ai pm dalla procura capitolina. Shalabayeva, Mps, Eni: il carcere teorico non spaventa più la classe dirigente L’iter giudiziario In primo grado i cinque funzionari, oggi destinatari della sentenza della Corte d’appello di Firenze, sono stati condannati dal tribunale di Perugia a pene comprese tra i 4 e i 5 anni. In secondo grado, il 9 giugno 2022, i giudici perugini hanno assolto tutti gli imputati «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di sequestro di persona, ribaltando il verdetto di primo grado. La Corte di Cassazione nell'ottobre del 2023 ha poi annullato le assoluzioni disponendo un nuovo processo davanti alla Corte d'appello di Firenze. E proprio pochi giorni dopo dalla decisione dei giudici di legittimità, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Intelligence, Alfredo Mantovano, dispone una “promozione” nei confronti di uno degli imputati della vicenda: l’allora capo della squadra mobile di Roma ed ex questore di Palermo, Renato Cortese, il poliziotto che nel 2006 aveva arrestato il super latitante Bernardo Provenzano. È ottobre del 2023 quando Mantovano attribuisce a Cortese la guida dell’ufficio centrale ispettivo al dipartimento di pubblica sicurezza. L’incarico avrà una durata di tre anni. Una nomina “giustificata” allora da Chigi per il profilo di Cortese: considerato di grande spessore, con una carriera invidiabile almeno fino a quando non è finito nella bufera del caso Shalabayeva. Oggi con la sentenza di condanna è stata disposta per i cinque poliziotti anche l’interdizione, a cinque anni, dai pubblici uffici. «Vorrei dire a tutti che è stata presa una decisione incredibile, è difficile stare contro alti funzionari dello Stato italiano. Grazie a tutte le persone che hanno avuto fiducia in me, grazie a voi ho avuto questa decisione giusta oggi, grazie», le parole di Shalabayeva. Ancora una volta commossa e incredula, dopo oltre dieci anni di calvario giudiziario. Tuttavia non è ancora finita, perché i cinque poliziotti hanno promesso che faranno ricorso. Di certo chi ha ordinato il pasticcio dell’espulsione non ha mai dovuto renderne conto.