Non può certo dirsi un leader noioso. Ma per il suo decimo compleanno da segretario della Lega, Matteo Salvini ha riservato i colpi migliori, il meglio di due lustri di propaganda. L’ultimo è il suo silenzio tradotto in attacco dai pasdaran del partito addirittura contro il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, uomo loro peraltro, perché ha osato nominare tra due super cattoliche, Paola Concia, di sinistra e attivista per i diritti Lgbt+, per fare da garanti sul programma per le scuole “Educare alle relazioni”. Qualche leghista ha persino chiesto le dimissioni del ministro voluto da Salvini nel governo. Altri hanno chiesto di evitare nomine divisive. Di certo ha vinto la lobby del movimento Pro Vita, legatissima alla Lega da quando Salvini dieci anni fa è diventato segretario.

Da allora è cambiato molto, Salvini. Per dire: un tempo era contrario al Ponte sullo Stretto di Messina, oggi è il ministro delle Infrastrutture che vuole passare alla storia per averlo realizzato. Un’opera che al cento produttivo del nord interessa zero. Ma del resto Salvini le istanze loro le ha abbandonate da tempo, accusano i detrattori del segretario. Di certo oggi ascolta più Denis Verdini, padre della fidanzata Francesca, che Umberto Bossi, il fondatore della fu Lega nord, un tempo maestro del Salvini militante.

In queste ore i salviniani più fedeli al capo hanno ripreso la guerra al Mes (il meccanismo europeo di stabilità). Una battaglia identitaria per i sovranisti. Ma nella Lega ogni cosa ha il suo contrario: al ministero dell’Economia c’è Giancarlo Giorgetti, nostalgico della Lega nord, che contrario non è. Giorgetti, così come Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, non vivono sempre a proprio agio il nuovo corso imposto dal Capitano sovranista. Eppure nonostante le condizioni favorevoli non hanno mai tentato il putsch per strappargli la segreteria e riportare la Lega al nord. «Non hanno carisma né coraggio», è ormai la tesi di molti ex leghisti fuoriusciti.

Giorgetti aveva uno sguardo a tratti imbarazzato due settimane fa seduto in prima fila a Firenze, dove Salvini ha riunito i suoi alleati di estrema destra provenienti da varie parti d’Europa. Il leader polacco che aspira a entrare all’europarlamento, salito sul palco ha esordito con alcune frasi latine e con un amen finale. I tedeschi hanno difeso le loro posizioni filorusse. Con Bossi tutto questo sarebbe stato impossibile.

Il nuovo corso

La famiglia tradizionale, le crociate contro l’aborto, i diritti alle coppie omossessuali, le giravolte sulle grandi opere, la Russia. Non frasi buttate nella mischia a caso, non sono boutade estemporanee. Sono piuttosto figlie di un processo politico. Una lunga marcia iniziata il 15 dicembre 2013 a Lingotto di Torino. Lì Matteo Salvini mai avrebbe immaginato che il suo progetto potesse diventare realtà: trasformare la Lega nord in qualcosa di diverso e portarla a percentuali di consenso oltre il 20 per cento.

Sono trascorsi, dunque, dieci anni dal giorno in cui al congresso federale della Lega nord è stato proclamato segretario. Aveva vinto le primarie una settimana prima con l’82 per cento. Sconfitto Umberto Bossi, il Senatur. Il padre fondatore e maestro di tutti i giovani padani come Salvini è stato anno dopo anno messo ai margini, santificato in pubblico allontanato dal centro decisionale. Ucciso politicamente, da Salvini nelle vesti di un moderno Edipo.

Il Capitano all’epoca non era ancora il Capitano del sovranismo italiano.

Era un uomo di 40 anni, che però ha colto l’occasione giusta per prendersi il partito dopo gli scandali finanziari della gestione Bossi che hanno affossato il Carroccio. Fa la gavetta in consiglio comunale a Milano, poi europarlamentare e deputato. In un momento in cui la dirigenza leghista aveva abbandonato i toni della lotta preferendo quelli da governo, Salvini, al contrario, alzava i toni e l’asticella del conflitto con gli avversari, trattati sempre da nemici del nord, che poi diventeranno nemici della nazione, della patria e così via.

In molti si chiedono, dieci anni dopo, se la sua leadership sia stata un fallimento o no. La risposta è nella storia di questi anni fatta di tappe gloriose, di trionfi, di governo, di contraddizioni. Il partito anti establishment si è dimostrato uno slogan vuoto. Salvini si è legato al potere romano, è stato finanziato tramite associazioni leghiste da costruttori, signori della grande distribuzione e multinazionali.

Ha puntato tutto sul personalismo, che mischiato all’ossessione dei «pieni poteri» lo ha portato dalle stelle del 34 per cento delle europee del 2019 al modesto 8-9 per cento delle ultimi politiche, fagocitato dall’alleata Giorgia Meloni. A questo vanno aggiunti nel periodo di massimo splendore i nuovi scandali, le indagini sui fedelissimi, le condanne di chi amministra la cassa sovranista, i suoi legami pericolosi con la Russia di Putin e con i neofascisti di ogni parte d’Europa.

Eppure ciò che tutti ricordano è il Papeete, la terza Camera estiva di Salvini a petto nudo e costume, con mojito in mano. Il primo e unico leader nel mondo a provocare un crisi di governo dalla spiaggia. Era agosto 2019, tra un rosario mostrato in tv, la fede esibita nei comizi, è l’anno clou per il destino politico del Capitano per via della fine del governo gialloverde, delle elezioni europee e del Russia gate.

Putin il grande

Torniamo, così, al 15 dicembre 2013. Lì nella sala congressi del Lingotto, seduti nelle prime file, sono visibili i primi geni del sovranismo che muteranno radicalmente la genetica della Lega, da partito del nord a forza nazionalista, di estrema destra, con lo sguardo rivolto al despota Vladimir Putin. Tra gli ospiti d’onore, infatti, c’è un cittadino russo, sconosciuto dai vecchi padani presenti.

Si chiama Andrey Komov, è il rappresentante del World congress of families, organizzazione cristiana e ultra tradizionalista che si batte per la tutela della famiglia tradizionale: è contro l’aborto, contro le coppie arcobaleno, è un contenitore di associazioni pro vita tra le più oscurantiste. Komov è il collaboratore più fidato dell’oligarca Konstantin Malofeev, altro uomo legatissimo al Cremlino. Malofeev sarà una pedina centrale nel futuro della Lega e dei sovranisti europei.

Komov è stato presidente onorario dell’associazione Lombardia-Russia, fondata da Gianluca Savoini, già portavoce di Salvini, ideologo della nuova politica estera della nuova Lega. Savoini è il protagonisti di molte vicende che mineranno la credibilità del partito agli occhi degli governi occidentali. I suoi continui viaggi a Mosca, le amicizie nell’entourage di Putin fino alla trattativa del Metropol per finanziare la Lega con soldi russi, è stato il consigliere ombra del Capitano per gli affari geopolitici.

Si è mosso sempre nelle retrovie, senza ruoli ufficiali nella Lega, Salvini lo ha portato con sé nelle sue gite moscovite. Fino a quando non è diventato troppo ingombrante, cioè all’indomani della scoperta che all’hotel Metropol nel 2018 si era messo a negoziare, con uomini del giro putiniano, un finanziamento milionario per la campagna elettorale delle europee dell’anno dopo.

Il caso Metropol è il macigno che pesa ancora oggi sulla storia di Salvini, soprattutto nei rapporti internazionali con gli Stati Uniti e ora con i tentativi di alleanze europee. Troppo filorusso, per i Popolari europei e per i Conservatori di cui fa parte Fratelli d’Italia.

La Russia ritorna spesso in questi dieci anni. Nel 2022 è di nuovo finito al centro di sospetti e polemiche per i rapporti con l’ambasciata russa in Italia. Ad accompagnare Salvini a questi incontri riservati c’era Antonio Capuano, un misterioso consulente, avvocato d’ambasciate, ex politico. L’essere filorussi è un tratto caratteristico anche dei suoi compagni di gruppo in Europa.

I tedeschi dell’Afd, per esempio, lo hanno ribadito il 3 dicembre scorso alla convention dei sovranisti europei organizzata dalla Lega a Firenze. «Lo dico gratis che Putin è il miglior leader del momento», no, il copyright non è degli estremisti dell’Afd, ma di Salvini alcuni anni fa. Un foto poi di questi dieci anni da segretario resterà negli annali della spregiudicatezza politica: Salvini in maglietta bianca con il volto di Putin, il leader della Lega sorridente sulla piazza rossa, alle spalle il Cremlino. Immagini che dopo l’occupazione russa dell’Ucraina sono tornate di attualità.

Bye bye autonomia

Il sentimento filorusso e i personaggi improbabili che hanno mediato, trafficato e condotto Salvini all’ombra del Cremlino non è l’unica rivoluzione che può intestarsi il Capitano. Dopo dieci anni l’altra certezza è che ha distrutto il partito del nord. Non modificato, semplicemente non esiste più in termini formali e sostanziali. Sulla carta c’è stato uno sdoppiamento: Lega nord lasciata al proprio destino per via del debito mostruoso da 49 milioni di euro con lo stato provocato dagli scandali del 2012 dei tempi di Bossi; Lega Salvini premier, fondata dal notaio nel 2018, è l’involucro di una struttura nazionale, patriottica, spostata all’estrema destra, che ha voluto espandersi fino alla Sicilia.

Il vero cambio però è nel nome: il partito è Salvini premier, Lega è un di più, rimasto lì appeso più per rispetto di una storia che per altro. Lega Salvini premier è il partito personale, nero su bianco nello statuto. Non esisterà altro leader all’infuori del Capitano, che per questo ha resistito alle ultime debacle elettorali. «Chi diventerebbe il capo di un partito con Salvini nel nome?», ripetono i vecchi leghisti, ormai fuoriusciti e fondatori di associazioni federaliste, partitini. Frammenti di una vecchia Lega che non esiste più se non sulla carta.

Perché, appunto, la Lega nord esiste ma è inattiva, e zeppa di debiti. Il federalismo? Per Salvini non è una priorità, lascia fare a Roberto Calderoli, che pensava di ricompattare la base con la sua proposta di legge sull’autonomia differenziata, in realtà molto contestata alla base. Per Salvini la priorità è la propaganda sovranista: l’invasione degli immigrati, fomentare la guerra tra poveri, raccogliere rabbia e quindi consenso. Ha funzionato per un paio di anni, grazie alla sua squadra della comunicazione strapagata, anche con soldi pubblici.

Ma qualcosa si è inceppato tra il 2020 e oggi. La Lega dal 34 per cento è crollata al 9. I militanti sono in fuga. Le sezioni si svuotano. Il nord produttivo ha scelto Meloni, stufo di inseguire slogan anti immigrati. Infine ci sono le «vecchie storie», come il Capitano ha sempre bollato la faccenda dei 49 milioni della truffa sui rimborso elettorali. Ma questa è un’altra storia, con molti scandali e altri denari, che merita un capitolo a parte.

Soldi e scandali

Salvini, infine, aveva la missione di far dimenticare la truffa dei 49 milioni sui rimborsi elettorali usati dalla Lega nord per esigenze personali di Bossi. «Vecchie storie», le ha sempre bollate il Capitano. Non è andata così, ma questa è un’altra storia che merita un capitolo a parte.

Ma il fantasma dei 49 milioni ha seguito Salvini lungo la strada in questi dieci anni. Anche perché quei soldi, hanno stabilito i giudici, andavano restituiti allo stato. E a ridarli doveva essere la Lega guidata da Salvini. Ma il malloppo che fine aveva fatto? Da questa semplice domanda sono scaturiti una serie di filoni di indagine che porteranno ad altri scandali.

Il primo ha riguardato i commercialisti incaricati di amministrare i conti di società del partito e dei gruppi parlamentari. La beffa più grande è che i due contabili bergamaschi scelti dal tesoriere Giulio Centemero e da Salvini avrebbero dovuto sistemare i conti.

Invece sono stati condannati in primo grado per aver distratto 1 milione di euro pubblici da regione Lombardia. E anche a Centemero non è andata meglio: sotto processo per finanziamento illecito a Roma, per lo stesso reato ha collezionato una condanna a Milano. Ma gli amici non si lasciano per strada. Così uno dei due commercialisti, Alberto Di Rubba, nonostante le indagini e il processo (ha ricorso in appello) è stato promosso, pochi mesi fa, a tesoriere della Lega. Un regalo al fedelissimo. La sintesi di dieci anni di Salvini segretario.

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