Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra.

Dalla relazione di perizia medico-legale redatta dal Prof. Marco Stassi si desume che Mario Francese fu raggiunto da almeno quattro proiettili di arma da fuoco corta. Tre proiettili lo colpirono alla testa: uno, penetrante, al vertice del capo; un secondo, penetrante, alla regione temporale sinistra; ed un terzo, di striscio, non penetrante, alla sommità dell’elice sinistro ed alla regione preauricolare sinistra. Un quarto proiettile raggiunse la vittima al collo. La morte avvenne quasi istantaneamente, per le gravissime lesioni cranio-facciali provocate dai proiettili che raggiunsero il soggetto alla testa. I colpi furono esplosi tutti da una distanza superiore ai 20-25 cm. L’unico proiettile repertato proveniva da un revolver calibro 38.

La relazione di perizia tecnica di ufficio redatta dal perito balistico Pietro Pellegrino in data 8 settembre 1979 evidenziò che il proiettile era stato esploso con un revolver calibro 38 special, del tipo Smith & Wesson.

La relazione di perizia balistica redatta il 28/9/1981 dal perito Eugenio Ajola non consentì di accertare se il proiettile estratto dal cadavere di Mario Francese provenisse da una delle armi (tra le quali vi era proprio una rivoltella cal. 38 special) sequestrate in data 7 luglio 1979 a Antonino Marchese, il cui appartamento era nella disponibilità anche di Leoluca Bagarella. Al riguardo, il perito specificò che dalla comparazione erano emerse analogie di classe fra le impronte di righe rispettivamente esistenti nei proiettili, ma non anche elementi di identità relativamente alle fini striature presenti nei proiettili impiegati per il test; ciò, comunque, non escludeva la possibilità che il proiettile repertato provenisse da una delle rivoltelle in sequestro, in quanto a causa delle sue notevoli deformazioni non era stato possibile risalire alle originarie fini striature in esso presenti.

Un'auto della Regione

L’autovettura utilizzata per commettere il delitto fu individuata dagli inquirenti in una Alfetta di colore blu che venne rinvenuta il 9 febbraio 1979 in Via Salvatore Sangiorgi. L’autoveicolo, la cui targa era stata sostituita con un’altra formata da due spezzoni di diverse targhe, era stato parcheggiato in tale luogo il 6 febbraio precedente, e si presentava in perfetto ordine, regolarmente chiuso a chiave, con il bloccasterzo inserito, e con la carrozzeria non impolverata. Si trattava di un’autovettura di proprietà dell’Assessorato alla Presidenza della Regione Siciliana ed assegnata al servizio dell’On. Mario Fasino, che era stata sottratta nella mattinata dell’11 dicembre 1978 all’autista consegnatario Antonino Cusimano in Via Montepellegrino, e dopo il furto aveva percorso non più di 50 km.; il mezzo, quindi, doveva essere stato rubato allo scopo di essere utilizzato per la realizzazione dell’omicidio, e doveva essere stato custodito in qualche luogo ubicato nelle vicinanze di Via Montepellegrino (cfr. il rapporto giudiziario del 12 febbraio 1979 del Dirigente della Squadra Mobile, dott. Boris Giuliano).

Dalle suesposte risultanze investigative emerge con chiarezza la presenza di un piano criminoso particolarmente elaborato, che venne sviluppato ed attuato con l’efficace apporto di una pluralità di persone, provviste di una elevata capacità criminale e perfettamente coordinate tra loro, e sulla base di una accurata predisposizione di mezzi, protrattasi per un notevole arco di tempo.

L’autovettura usata per commettere il delitto era stata sottratta un mese e mezzo prima, ed era stata custodita in un locale sicuro, sito nelle vicinanze del luogo del furto e di quello dell’agguato, in modo da ridurre al minimo la circolazione del mezzo (che doveva essere servire, evidentemente, solo per realizzare una precisa e ben delimitata impresa criminosa), e, quindi, da sfuggire ai possibili controlli delle forze dell’ordine. Nell’uso del veicolo, inoltre, erano stati adottati accorgimenti – come la contraffazione della targa ed il mantenimento del mezzo in perfetto stato di conservazione – idonei a ritardare l’insorgere dei sospetti e a renderne più difficoltosa l’identificazione della sua provenienza delittuosa.

Le modalità con le quali l’autovettura era stata utilizzata dopo il furto dimostravano chiaramente che essa era stata sottratta al solo scopo di impiegarla nella commissione dell’omicidio: è evidente, infatti, che chi fosse stato interessato ad appropriarsi del veicolo, o di alcune parti di esso, per fini di lucro, avrebbe, entro breve tempo, provveduto a portarlo in un luogo distante, o a cederlo ad un ricettatore, ovvero a smontarlo in più pezzi irriconoscibili, invece di custodirlo con la massima cura per quasi due mesi in prossimità del luogo del delitto, e di abbandonarlo in una strada facilmente raggiungibile, con modalità che consentissero di non attirare l’attenzione altrui.

Un agguato preparato con cura

L’esecutore materiale dell’omicidio aveva agito con estrema freddezza e precisione, si era mosso in modo rapido e deciso, senza apparente concitazione, aveva mostrato una “tremenda determinazione” (per usare le parole della teste Mangiarotti), si era collocato in punti dai quali era possibile prendere la mira sulla vittima senza farle notare la propria presenza, aveva centrato Mario Francese con una pluralità di colpi mortali nonostante l’oscurità, aveva portato a termine l’impresa criminosa nel giro di pochi istanti, non aveva avuto esitazioni ad agire a volto scoperto, non si era preoccupato della presenza di altre persone di passaggio sulla strada, aveva avuto l’ardire di incrociare lo sguardo della testimone oculare abitante nello stabile (con evidenti finalità intimidatorie che denotavano una assoluta sicurezza di sé), e si era allontanato velocemente avvalendosi della collaborazione di diversi complici, uno dei quali conduceva l’autovettura.

Le suddette modalità della fase preparatoria e della fase esecutiva dell’omicidio sono palesemente ricollegabili all’intervento di un killer professionista, convinto della propria futura impunità, ed inserito in un’organizzazione criminale capace di avvalersi di consistenti risorse umane e logistiche in vista dell’attuazione di obiettivi delittuosi programmati da lungo tempo. Un’organizzazione che offriva ai suoi affiliati la fondata aspettativa di potersi sottrarre agevolmente alle ricerche dell’autorità giudiziaria, e la consapevolezza di non dover temere la collaborazione con la giustizia dei comuni cittadini, del resto ampiamente disincentivata dalla stessa fama criminale del sodalizio.

Si tratta, dunque, di un episodio criminoso con caratteristiche pienamente corrispondenti a quelle degli agguati di inequivocabile stampo mafioso che si riscontravano con notevole frequenza nel medesimo periodo e nello stesso contesto ambientale. E la stessa arma utilizzata per l’omicidio era certamente analoga (se non identica) a quelle in possesso del gruppo di "uomini d'onore" cui era strettamente legato Leoluca Bagarella.

Le indicazioni che possono formularsi, sulla base dell’esame delle modalità del delitto, in merito alla riconducibilità della deliberazione omicidiaria a Cosa Nostra, trovano, poi, una puntuale conferma nell’analisi del movente, quale emerge dalla considerazione del coraggioso impegno professionale di Mario Francese.

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9

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