Roberto si è tolto la vita dentro la sua cella nel carcere Pagliarelli di Palermo. Ha fatto un cappio con le lenzuola e si è lasciato andare giù. Aveva 29 anni. È morto il 15 settembre 2022, dopo due settimane di coma. Era stato accusato di una tentata rapina in una parafarmacia e a ottobre lo aspettava la prima udienza del processo. Davanti al giudice non c’è mai arrivato. Troppa la pressione, moltiplicata dietro le sbarre dalle sue fragilità. Roberto era un malato psichiatrico, soffriva di disturbo di personalità borderline.

Racconta suo padre Ino Vitale, poliziotto in pensione: «Da maggio ad agosto, in quei tre mesi di detenzione, Roberto ha cambiato decine di celle perché quando i compagni si accorgevano che prendeva le medicine lo allontanavano. Gli facevano trovare i bagagli fuori dalla cella». Le condizioni di vita erano impossibili, dice Ino: «Non si riusciva a respirare. La cosa peggiore è che la doccia, col caldo che fa a Palermo d’estate, veniva permessa una volta alla settimana. Roberto spendeva i soldi per comprare acqua minerale al supermercato. Si lavava di nascosto. E alla fine, per non farsi discriminare dagli altri detenuti, ha smesso di assumere i farmaci».

Il padre di Roberto non trattiene le lacrime: «Mio figlio non avrebbe mai dovuto mettere piede in carcere nelle sue condizioni di salute. Anche il gip, disponendo la custodia cautelare in carcere, si era raccomandato di trovare una comunità terapeutica che lo accogliesse. Ma non c’erano posti liberi. Non si può perdere un figlio così. Roberto ha lottato ma dentro di me sapevo che non ce l’avrebbe fatta. Il sistema non funziona».

Ino Vitale è stato tra i primi poliziotti ad arrivare in via D’Amelio dopo l’esplosione della bomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. Di quel pomeriggio che ha segnato la storia italiana ricorda tutto. «Credevo di aver visto l’inferno quel 19 luglio 1992, invece l’inferno l’ho visto in carcere e l’ho vissuto attraverso i racconti di mio figlio. Per anni ho servito lo stato, lo stesso che avrebbe dovuto custodire Roberto e che invece me l’ha portato via per sempre».

Undici suicidi nel 2022

La Sicilia è osservatorio privilegiato per raccontare l’inferno carcerario. Quello di Roberto è uno degli undici suicidi registrati nelle carceri siciliane in un 2022 che sarà ricordato come l’anno nero per gli istituti di pena italiani. L’anno scorso 84 detenuti si sono tolti la vita, uno ogni cinque giorni. Il precedente primato negativo risaliva al 2009, quando in totale erano stati 72. Ma allora i detenuti nelle carceri erano 61mila, cinquemila in più di oggi. «Non vedere negli 84 suicidi dell’ultimo anno la misura delle condizioni in cui versano le carceri del paese è ingiustificabile», commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione nata negli anni Ottanta per tutelare i diritti e le garanzie nel sistema carcerario.

I penitenziari dell’isola sono al secondo posto nella classifica dei gesti estremi in cella dopo i 15 suicidi registrati in Lombardia. Ma in rapporto alla popolazione carceraria (seimila i detenuti in Sicilia, ottomila in Lombardia) i due dati sono equivalenti e fanno del caso siciliano un simbolo preoccupante. L’età media delle persone che si sono tolte la vita è di 37 anni. Spiega Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti: «Basta fare i conti. Se rapportiamo queste cifre ai siciliani che nel 2022 si sono tolti la vita fuori, ci accorgiamo che nelle carceri il tasso di suicidi aumenta di almeno venti volte. Il piano di prevenzione del rischio suicidi e atti autolesionistici dev’essere dotato di figure specialistiche, altrimenti è una scatola vuota che serve a poco. E questi numeri lo confermano».

Degli undici suicidi nelle carceri siciliane quattro si sono verificati a Palermo, e uno in ciascuno dei penitenziari di Messina, Catania, Barcellona Pozzo di Gotto, Caltagirone, Siracusa, Castelvetrano e Termini Imerese. Di questi detenuti cinque erano siciliani, quattro stranieri, uno proveniente dal Veneto e uno dal Lazio. A pesare è anche il sovraffollamento. Dei 23 istituti di pena siciliani almeno quattro – Castelvetrano, Augusta, Catania Bicocca e Gela – superano la capienza massima prevista dalla legge.

Le Rems

«Perché mio figlio è stato rinchiuso in un carcere normale? Non era il posto giusto. Lo stato lo ha abbandonato». La risposta alla domanda di Ino Vitale è sempre la stessa: assenza di strutture e di posti disponibili. In Sicilia sono circa 200 i detenuti in lista per le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture sanitarie per l’accoglienza di pazienti psichiatrici autori (o accusati) di reato. Ma le Rems in tutta l’isola sono solo due, una a Caltagirone, l’altra a Naso, in provincia di Messina. Ognuna può ospitare 20 pazienti. Per accedervi si possono aspettare anche due anni. L’assessore alla Salute della giunta Musumeci, Ruggero Razza, in carica fino allo scorso ottobre, aveva annunciato l’apertura di altre due strutture, una a Caltanissetta e l’altra nella Sicilia occidentale. Il governo regionale è cambiato e al momento non si è visto nulla.

Ma a mancare non sono solo le strutture. In molti istituti vi è una presenza di specialisti psichiatri e psicologi nettamente inferiore alla media nazionale. Il problema è diffuso, ma anche in questo caso Palermo è maglia nera. Sia nel 2021 che nel 2022 la media dei servizi erogati si attesta intorno alle 10 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri, e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. Gli ultimi dati disponibili diffusi da Antigone mostrano ad esempio che il carcere Ucciardone di Palermo ha una presenza molto inferiore di entrambi gli specialisti: 5,1 ore gli psichiatri e 5,1 ore gli psicologi. Come dire che uno psichiatra passa una mattinata alla settimana a occuparsi dei problemi mentali di un centinaio di persone.

Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale dell’università di Palermo e garante dei detenuti in Sicilia, «non è solo un problema di carenza numerica, ma anche di competenza e di formazione degli psicologi carcerari. Manca una competenza specifica di psicologia penitenziaria, una conoscenza approfondita delle reazioni che si possono manifestare per effetto dello stato detentivo».

Secondo il noto giurista «dovrebbero essere anche i magistrati, quando dispongono l’applicazione della pena detentiva, ad avere maggiore attenzione rispetto alle caratteristiche psicologiche di chi viene giudicato. Certamente il magistrato non è uno psicologo, per questo ci vorrebbe personale esperto che interagisca con lui». Ad aggravare la situazione della realtà penitenziaria siciliana, secondo Fiandaca, c’è anche «la minore opportunità di lavoro, di formazione e di studio rispetto ad altri luoghi».

Il garante nazionale Palma sollecita l’iniziativa delle aziende sanitarie territoriali: «Devono muoversi e in fretta. È un problema trasversale. Anche in Lombardia, per esempio, è difficile trovare comunità che accolgano pazienti psichiatrici in attesa di giudizio o condannati. In questi casi l’elemento di supporto della sanità territoriale dovrebbe essere molto forte». E sottolinea un dato è allarmante: «Il 70 per cento delle persone che si sono uccise nel 2022 sono state coinvolte in situazioni di criticità. Cioè situazioni in cui la struttura carceraria non poteva farcela da sola e si richiedeva l’aiuto della realtà territoriale». Aiuto che, come i risultati dimostrano, troppo spesso è mancato.

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