Il battitore avrà sì e no vent’anni e lo sguardo dritto. Non becca la pallina, stavolta, e fa la smorfia di Michael Jordan nella partita d’esordio di baseball in Space Jam. Solo che qui nessuno fischia o fa buu, non è il baseball, e questi ragazzi di una sparpagliata “nazionale” di cricket degli immigrati del Bangladesh si divertono assai.

Il campo

Serviva un “campo” per allenarsi, però. Così gli sarà sembrato uno stadio olimpico l’afflitto cantiere sud di quel viale Parco di Cosenza, oggi viale Giacomo Mancini, il vecchio e carismatico leader del Partito socialista, scomparso nel 2002, attorno alla cui costruzione la “Milano” della Calabria ha vissuto decenni di polemiche e scandali tra abusi, speculazioni, e inchieste giudiziarie sui rifiuti che nascondeva il manto stradale.

Tra questi, forse i più sfrontati, gli scheletri di automobili, necessari a risparmiare sui costi di riempimento. Dopo quelli di un viaggio infinito verso l’Europa, ora l’ultimo confine da superare non era più come quelli controllati dalle feroci polizie dei Balcani (agenti italiani compresi, se pensiamo a Trieste, dove in tantissimi arrivano stremati, senza quasi più occhi per piangere) con i loro cani che strappano polpacci e mani, o le acque notturne del Mediterraneo con gli scafisti armati che se protesti ti gettano in mare, ma reticoli di plastica arancioni, tramagli di metallo, il jersey, lo sguardo dei vigili urbani, chissà, a dare un nulla osta di sottecchi.

Il game non è più quello delle rotte diaboliche, attraversate come fantasmi senza nome e cognome, spogliati di soldi, documenti, cellulari, scarpe e soprattutto della dignità. Si gioca a cricket, adesso. Ed è come un prodigio in un pomeriggio di traffico e prime piogge, tra passanti, automobilisti, ciascuno avvolto nel bavero dei primi giubbini, nascosto nei fatti propri. Giocano, saranno una quindicina, zero tifo, zero spalti, solo lo sguardo delle Colombe della Pace di Cesare Baccelli, la gigantesca scultura di ferro che fu trapiantata qui da piazza Kennedy, simbolo degli strusci cosentini anni Settanta.

Nativi crickettari

Peccato che non vi sia pubblico, perché è poesia questa scena. Sport assoluto, sorrisi assoluti. Abbiamo visto anche dei bengalesi felici, avrebbe cantato Claudio Lolli, quello degli zingari felici, dei «poeti che ci fanno paura», come del buio anche la luce.

E sono poeti, ora, questi ragazzi, sotto la luce dei lampioni. Lancio, colpi, corsette, sono endecasillabi. Hanno soltanto due mazze, quattro palline e un guantone recuperati chissà dove. Ragazzini, in realtà, nativi crickettari come noi eravamo nativi pallonari e oggi digitali.

«C’è sempre stato poco da mangiare a casa mia, ma eravamo abituati a quella vita. Appena finite le ultime briciole, correvo in strada a giocare. Dimenticavo anche di avare fame»: Emon Dhali oggi ha 22 anni, e un sorriso che disorienta se pensiamo che è arrivato in Italia col barcone quando era poco più che un bambino. Più di cento lì sopra, due giorni di navigazione, senza mangiare, qualche bicchiere d’acqua a stento e pure sporca, puzzolente di benzina.

Ci sarebbe davvero poco da gioire quando alle spalle hai tutta la miseria del tuo paese – «io però lo adoro, il mio paese, è più bello del mondo, il mio paese», ripete – e ad appena 16 anni hai lasciato tua madre, tuo padre e una sorellina, affrontando l’ignoto, patendo la detenzione orribile dei sotterranei libici, dove i tuoi carcerieri ti bastonano se soltanto osi chiedere di poter respirare un po’ d’aria all’aperto o di poter fare la pipì senza che nessuno ti osservi. E se oggi vaghi in città in cerca di lavoro, col pensiero costante di mandare soldi a casa e non riuscire. È il capitano della squadra, Emon. «Ma possiamo esserlo tutti, in realtà», dice, «certo io ho un po’ più d’esperienza degli altri. Preferiscono che spesso sia io». Ne arrivano altri, saranno una ventina ora. Chi riposa, è sintonizzato a metà sull’allenamento dello “stadio Mancini” e a metà sul cellulare.

Coppa del Mondo

Anche oggi in campo c’è la nazionale, quella vera. La Coppa del Mondo, il maggiore trofeo internazionale, organizzato dalla International Cricket Council, è in corso proprio in questi giorni. Si gioca in India e il Bangladesh per la verità è a due punti, fanalino di coda in classifica, insieme addirittura con l’Inghilterra, dove questo sport è nato tra il XIV e il XV secolo. In vetta ci sono Sudafrica, l’India stessa, padrona di casa, e l’Australia.

Un mondo a parte, il cricket, leggendario, letterario. Da sempre, giocoforza, per via dell’equipaggiamento, e di quei lanci di palla e di quelle mazze che la respingono, delle corsette a volte inspiegabili – non per i suoi quasi due miliardi di appassionati nel mondo, una gallina dalle uova d’oro se la pensiamo in termini di diritti televisivi – paragonato al baseball.

Si affrontano due squadre di 11 giocatori, le partite possono durare ore e anche giorni. I ragazzi della deliziosa nazionale degli immigrati bengalesi sanno tutto. Sanno anche che il loro sport sarà di nuovo, dopo più di un secolo, alle Olimpiadi del 2028, a Los Angeles. Lanciano, battono, corrono. Ridono. Si preparano al match di questa mattina: arriveranno molti connazionali apposta. Da Castrovillari, finanche da Napoli, dice Emon. «Mi mancano i miei, penso a loro anche quando gioco a volte», sussurra, sudato, ma composto, educato. Lui viene da Madaripur. È una città al centro del Bangladesh, nella regione di Dhaka, famosa per i suoi templi antichissimi. E i suoi slum, come in Africa, in America Latina. Emon, fuggito da quella povertà, ha negli occhi sempre anche tutta la bellezza. «Che sogno ho? Giocare a cricket ancora, anche nella nazionale italiana. Venissero a vederci, siamo bravi, io sono bravo». Resta in silenzio, forse imbarazzato per quello che ha appena detto.

In battuta

Sembra Manju, ma al contrario: tra i protagonisti del romanzo di Aravind Adiga, Selection day, in Italia tradotto magnificamente da Norman Gobetti per Einaudi, il ragazzo dal cuore puro tormentato da un padre tiranno, macerato dall’assillo di fare dei suoi figli dei campioni di cricket per scappare dalla miseria della baraccopoli.

«– Lo sai cosa dicono i giaini, Pramod? Che esistono sette tipi di verità. Sette. Uno, il ragazzo potrebbe essere un vero campione. Due, potrebbe essere un falso campione. Tre, potrebbe essere al tempo stesso vero e falso. Quattro, potrebbe esistere in qualche stato che trascende sia la verità che la falsità in un modo che noi umano non possiamo comprendere. Cinque, potrebbe essere vero e tuttavia esistere in uno stato che va oltre le nostre scarse facoltà di comprensione umane. Sei…

– Tommy Sir, la prego. Io so cos’ho sentito nel cuore mentre quel ragazzo era in battuta. Lo so».

Lo sappiamo anche noi, che abbiamo visto Emon e gli altri in battuta.

Oggi partitone, è domenica. Non è il pitch, il campo nel gergo del cricket, del mitico Eden Gardens di Calcutta. Ma lo stadio improvvisato dell’ultimo lotto del cantiere infinito di viale Giacomo Mancini, a Cosenza. Finanche, buttato lì, un forno con tetto di maioliche per pizze cotte a legno. Tra spazzatura e reticoli aragosta, l’erbaccia cresciuta attorno alle Colombe della Pace, non ci sarà nessuno a fare il tifo.

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