Di colpo, ci siamo riscoperti sportivi. Non che prima non lo fossimo, solo che adesso non ci limitiamo più a seguire le competizioni, in tv o allo stadio: la tendenza del momento sono le docuserie sportive. Complice l’avvento delle piattaforme streaming, lo storytelling seriale si è infatti allargato alle discipline agonistiche di ogni ordine e grado, sfornando una miriade di contenuti, peraltro di altissima qualità. L’esempio più famoso è The last dance: il documentario su Michael Jordan, disponibile su Netflix, che ha conquistato anche chi, di basket, ci capisce ben poco. Ma, per l’appunto, questo è solo il caso più emblematico. La rosa di titoli è infatti sconfinata: su TimVision è disponibile Fabio – prendere o lasciare, docuserie dedicata al tennista italiano Fabio Fognini, mentre sulla piattaforma Discovery+ il 3 maggio ha esordito il documentario Federer contro Nadal. Francesco Totti ha ispirato ben due progetti: il documentario Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli e la miniserie tv Speravo de morì prima, proposta recentemente da Sky Atlantic. Doppietta anche per il compianto Maradona che sarà protagonista del documentario di denuncia La verità sulla morte di Maradona, realizzato da TN, e della docu Maradona – Sogno benedetto prossimamente sulla piattaforma Amazon Prime Video. E ancora: a maggio vedremo finalmente su Netflix l’atteso Divin codino, dedicato a Roberto Baggio, Eurosport Italia prossimamente lancerà Giochi da ragazze, raccontando la vita di otto fuoriclasse donne, mentre nel 2022 arriverà su Amazon Prime Video The Pogmentary, ritratto biografico del calciatore Pogba. Per non parlare delle docu sportive che vedono coinvolti i diretti interessati: Serena Williams è riuscita a strappare un mega un accordo di first look ad Amazon Prime Video. Con questa espressione si intende la priorità acquisita dalla piattaforma nel vaglio e nella messa in onda dei progetti tv della tennista. Che infatti starebbe lavorando a una serie di titoli di finzione e non. Scommette su una seconda vita da produttore anche David Beckham: all’ultimo Digital MipTv, il più famoso mercato internazionale dell’audiovisivo, l’ex calciatore inglese ha presentato vari progetti, tra i quali la serie Save our Squad, dove farà da mentore a una squadra dilettantistica londinese. Insomma, un’offerta corposa, che non sembra avere precedenti in passato. Da un lato, infatti, il genere dei documentari sta vivendo una seconda giovinezza, tanto in Italia quanto all’estero: si sperimentano nuovi linguaggi (come il genere factual), si spazia tra i temi e si investe maggiormente sull’estetica dei prodotti, per arrivare anche a un pubblico più largo. Dall’altro lato il racconto “extra partita” dello sport ha dato vita a un nuovo immaginario, finalmente inedito e all’insegna degli ultimi veri grandi eroi. Due specifiche che non sono di poco conto.

I nuovi (anti)eroi

Partiamo dalla prima: la natura inedita del racconto. Viviamo in un’epoca dove è difficile trovare qualcosa di assolutamente originale: non a caso, cinema e tv puntano a mani basse su remake, sequel, prequel, reunion e operazioni nostalgia. Per non parlare dell’invasione degli adattamenti letterari. Ebbene, in questo quadro di imperante déja vù, le docu sportive spalancano le porte di un mondo a noi sconosciuto: il dietro le quinte dello sport. Ci mostrano infatti chi è il grande campione, svelando aneddoti esclusivi e tratti inediti del suo privato. Lo stesso David Beckham, presentando le proprie produzioni, ha assicurato: «Ora mi posso riappropriare della mia storia». Della serie, adesso parlo io. «Le docu sportive ci raccontano anche il percorso di crescita dei campioni», dice Giuseppe Marzo, regista di Fabio – prendere o lasciare. «Non è detto che il pubblico già conosca l’iter che bisogna affrontare per sfondare agonisticamente, soprattutto se si sta parlando di sport diversi dal calcio. Personalmente mi affascina molto il mondo dei motori: è pieno di storie pazzesche e il pilota ogni volta sfida in qualche modo la sorte, mettendo in conto la possibilità di infortuni». Di fatto la carriera di molti sportivi ricalca il celebre viaggio dell’eroe: lo schema, ideato da Chris Vogler, che ha gettato le basi della moderna sceneggiatura. Non bisogna inventare nulla: c’è già tutto, ed è pure di prima mano.

«Il medesimo personaggio può essere raccontato in modo sempre diverso, semplicemente cambiando il punto di osservazione o il taglio dell’analisi: si può privilegiare la testimonianza diretta, recuperare il grande materiale d’archivio o decidere di ricostruire le vicende drammatizzandole», dice Eliana Corti, esperta di tv e redattrice della testata trade Tivù, «per non parlare dell’universo di diversity e inclusività che l’agonismo si porta dietro. Per certi versi è significativo che il primo titolo annunciato dalla casa di produzione del principe Harry e Meghan Markle sia stato Heart of Invictus: una docuserie sulla competizione sportiva riservata ai veterani di guerra con disabilità, fondata dallo stesso Harry».

E qui arriviamo all’altro aspetto: la dimensione eroica. In un’epoca dove le grandi star del cinema hanno perso la loro aurea di inarrivabilità e un film non lo si nega più a nessuno (basta pagare il pegno di un reality show), lo sport è l’unico terreno dove non ci si può improvvisare. Lì, dentro i palazzetti, vince davvero chi ha più talento: non esistono scorciatoie, se sbagli ne paghi le conseguenze e vale ancora la regola dell’impegno personale. I fuoriclasse sono insomma gli ultimi super eroi: quelli che non saranno mai come noi, e che, proprio per questo, si impongono come modelli aspirazionali. Se poi sono anche belli e dannati, con tratti da anti-eroi e storie di riscatto alle spalle, allora piacciono ancora di più. «Ad amplificare il coinvolgimento contribuisce anche il fatto di aver seguito personalmente le loro partite o imprese», continua Corti, «il poter dire “Io c’ero!” crea una vicinanza emotiva. All’emozione suscitata dalla docu si somma quella rievocata dai ricordi personali: in fondo i campioni sono parte integrante della nostra memoria collettiva». In nome di questa efficace contiguità, i documentari moderni tendono tra l’altro a usare meno i materiali d’archivio, per puntare sul «racconto in presa diretta», come conferma Marzo: «Seguendo fianco a fianco l’atleta, sia nei momento off che in quelli pre e post partita, si può offrire un quadro più intimo e diretto. Il tutto avendo massima cura dell’estetica: oggi si investe molto sulla fotografia, i dettagli e la spettacolarità delle immagini, in modo da valorizzare al meglio le scene sportive».

Il glocal diventa realtà

Questo da un punto di vista puramente narrativo. Per quanto riguarda invece l’aspetto più industriale, il fenomeno delle docu sportive si prospetta come un affare da milioni di euro. Il genere riesce infatti a trasformare in realtà la grande chimera inseguita da tutti gli sceneggiatori: il così detto glocal, ossia un racconto fortemente legato al territorio nazionale (local) ma che allo stesso tempo è in grado di imporsi anche sul mercato internazionale, conquistando l’interesse del pubblico mondiale (global). Ecco, con gli atleti lo si ottiene. Al contrario degli attori, i grandi campioni non hanno bisogno di presentazioni. Le loro gesta, così come il carisma, li precedono e allo stesso tempo sono fortemente caratterizzati dalle loro origini. «Nei territori anglosassoni, Fognini è molto amato: lo stimano per i suoi risultati ma piace anche per il suo modo di fare tutto italiano, così diverso dal loro», concorda Marzo, «prima della pandemia l’Università di Oxford ha organizzato un corso che vedeva tra i relatori degli sportivi e lo hanno invitato a tenere una lectio agli studenti inglesi». Certo, probabilmente se si vanno a guardare le voci del budget di produzione i costi sopra la linea, ossia quelli inerenti ai cachet degli artisti intervistati, non saranno sempre bassi. Un conto infatti è raccontare la storia, pur interessante, di un atleta emergente o un campione di una disciplina minore, un altro scomodare un nome di chiara fama. Tuttavia, come assicura Corti, ne vale la pena: «Sono prodotti la cui risonanza internazionale è praticamente garantita. Oltre allo zoccolo duro di sportivi che guarderanno il prodotto, i temi affrontati e i nomi coinvolti hanno il giusto potenziale per attirare l’interesse di un pubblico largo, anche di non addetti ai lavori. Quanto ai costi di produzione, spesso queste docu vedono coinvolti gli sponsor oppure i canali sportivi o le stesse squadre. The last dance coinvolge per esempio il network sportivo Espn e la stessa Nba, con la divisione Nba Entertainment».

A finanziare il business ci pensano poi le nuove piattaforme Ott che, per ragioni di programmazione, hanno un disperato bisogno di documentari e approfondimenti: le competizioni e i talk pre e post partita non bastano, da soli, a coprire un intero palinsesto, a meno di non tenerlo acceso h24. Da qui l’esigenza di una narrativa che ruoti attorno al fenomeno sport e che sposi le pezzature più diverse: dall’ora e mezza di durata, ai più agili episodi da 20 minuti. Insomma, il business ripaga e la domanda è forte. Eppure c’è qualcuno che non si è ancora mosso: i colossi generalisti Rai e Mediaset.

«Il documentario è un prodotto dalla collocazione ancora un po’ complessa, almeno per quanto riguarda il prime time generalista», spiega Corti, «tuttavia Rai e Mediaset potrebbero fare la differenza: hanno delle redazioni sportive altamente preparate e dei grandi archivi, che consentirebbero loro di trovare interessanti chiavi di lettura». La palla è al centro: sotto a chi tocca.

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