Sono delle piazze frastagliate e multiformi quelle in cui si è accesa la protesta nella serata di sabato 11 gennaio. A un mese e mezzo dalla morte del 19enne milanese Ramy Elgaml arrivata dopo un inseguimento dei carabinieri allo scooter in cui si trovava insieme a Fares Bouzidi. Proteste che sono sfociate in momenti di tensione, con cariche della polizia, a Roma e in ore di guerriglia tra le strade di Bologna.

Che sono state immediatamente condannate dalla politica, a partire dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni: «Abbiamo assistito all’ennesimo, ignobile episodio di disordine e caos ad opera dei soliti facinorosi scesi in piazza non per manifestare per una causa, bensì per puro spirito vendicativo. Non si può utilizzare una tragedia per legittimare la violenza», ha scritto subito sui social. E che hanno spinto la famiglia di Ramy a chiedere che il suo nome non venga «strumentalizzato per atti di violenza o per fini politici»

“Giustizia per Ramy”: due volantini, senza firma, ma con grafiche differenti, hanno iniziato a rimbalzare nelle chat e sui social convocando i due appuntamenti cittadini. Sono circa cinquecento le persone che sono confluite in piazza dell’Immacolata a Roma; studenti universitari, per lo più, militanti dei movimenti in ordine sparso. Praticamente nessuno dei centri sociali.

«C’erano tutti quelli che si sentivano di dover protestare per quello che è un vero e proprio omicidio, con la politica che non fa altro che giustificare i carabinieri», racconta un attivista dei collettivi che era presente.

«È, vero, c’erano slogan un po’ stupidi, come “Vendetta”, un po’ di rabbia scomposta e poco più che folkloristica». Il presidio si è trasformato in corteo che ha attraversato il quartiere di San Lorenzo per poi dirigersi verso la caserma di via dei Volsci. Lì i manifestanti si sono trovati davanti lo sbarramento della polizia. E, dopo pochi minuti, è partito, forse dal fondo, un lancio di oggetti, petardi e “bomboni”.

Il questore ha ordinato la carica: «Ma è durato tutto meno di cinque minuti, una piccola carica su cui si sta ricamando tantissimo». Il corteo si è poi ricomposto ed è partito verso Porta Maggiore, fermandosi però, a Scalo San Lorenzo. Al momento sarebbero trenta i manifestanti identificati.

«Razzializzati»

Autoconvocato con un «passaparola generatosi tra chat e social network, corridoi e aule di scuola», l’appuntamento bolognese era San Francesco, la piazza “dei regaz”, dove si ritrovano quotidianamente giovanissimi, dai 13 ai 20 anni, soprattutto ragazze e ragazzi di terza generazione, «razzializzati», come preferisce definirli un militante dei centri sociali che era presente.

«Una piazza che, non a caso, è al centro dei dibattiti sul daspo urbano e sulle zone rosse, su cui vengono continuamente emesse ordinanze restrittive. Ma è uno degli ultimi spazi di Bologna a cui si può accedere senza avere soldi. Ed è uno dei pochi posti in cui a un certo tipo di soggettività, viene permesso di esistere».

All’appuntamento hanno poi aderito collettivi, e realtà politiche cittadine. «Ma c’era anche tanta gente comune che ha voluto partecipare per pretendere verità e giustizia per un neo maggiorenne ucciso».

Anche qui, come a Roma, il presidio si è trasformato in un corteo che si è diretto verso via del Pratello, uno dei centri della movida bolognese. In testa sono finiti subito quei giovanissimi, migranti di terza generazione, che si autodefiniscono anche “maranza”, che piazza San Francesco la vivono quotidianamente.

«Non è stata la classica manifestazione come la conosciamo noi, fatta di interventi, carri, striscioni. In testa ne è comparso uno, ma praticamente un pezzo di telo con una scritta semplicissima fatta con lo spray. Era una passeggiata un po’ disordinata e scomposta che si è mossa verso via del Pratello. Lì è stata immediatamente bloccata e i ragazzi in testa hanno iniziato a lanciare di tutto verso la polizia. Sono partite così ore di scontri attraverso Bologna con la polizia che caricava per impedire loro di arrivare al centro. Credo che la celere non stesse neanche capendo quel che stava succedendo proprio perché non era una piazza alfabetizzata alla politica dei movimenti contemporanei. Erano giovani che stavano esprimendo la propria rabbia nei confronti di un omicidio poliziesco. Può piacere o non piacere, ma anche gli ultimi hanno il diritto di esprimersi. Posso anche dire che non c’è stato nessun assalto alla sinagoga, credo che nessuno di quei ragazzi sapesse neanche della sua presenza».

A parlarne era stato, nella mattina di domenica, il sindaco Matteo Lepore, ma è poi arrivata la precisazione del presidente della comunità ebraica di Bologna, Daniele De Paz: nessun atto vandalico, solo due scritte all’ingresso degli uffici. La piazza di Bologna, si legge nel portale di movimento Hubaut, è stata accesa da: «Giovani e giovanissime, per lo più razzializzate, con biografie, linguaggi, contraddizioni, desideri insovrapponibili a quelli della whiteness nostrana, motivo per cui appiattiti nelle narrazioni mediatiche con questo o quell’altro termine. Le cosiddette “baby gang” da relegare ai margini delle metropoli, da ghettizzare fino a dentro l’anima».

Le accuse

Proprio come gli amici di Ramy che, per primi, sono scesi in piazza al Corvetto raccontando la loro verità. «È questo il tema vero dello scandalo» continuano sul portale bolognese «la preoccupazione che una massa di giovani “maranza”, “teppisti”, “immigrati” possa non solo pretendere d’ora in avanti di far sentire la propria voce, ma anche di farlo fuori dai linguaggi consoni, senza prima “scolarizzarsi” su come – se proprio insisti – devi incanalare il tuo malcontento»

Preoccupato per la situazione è il senatore di Avs Giuseppe De Cristofaro: «La destra non provi a utilizzare quello che è successo per forzare i tempi in commissione sul ddl Sicurezza. Chiedo oggi, e lo farò domani sera in commissione il pieno rispetto del parlamento, delle sue prerogative e delle opposizioni, anche se purtroppo credo che ci sarà il tentativo di strozzare il dibattito».

Sulla rabbia che è esplosa a Roma e Bologna: «Sono convinto che i percorsi di lotta debbano essere quelli della disobbedienza civile non violenta. Episodi come questo penso che siano funzionali a chi porta avanti politiche repressive. Ma questi ragazzi vanno assolutamente ascoltati».

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