Ogni venerdì Tareq attende la videochiamata della famiglia, da quando la pandemia ha permesso ai detenuti che non potevano più ricevere visite di usare questo mezzo di comunicazione. La famiglia di Tareq vive a Bengasi, ed è dalla Libia che è partito nell’estate del 2015 per proseguire la sua carriera di calciatore. Già giocatore nel Tahaddi Benghazi, aveva deciso di unirsi ai migranti che convergono in Libia per un passaggio verso l’Europa. È stato condannato a 30 anni di carcere per traffico di esseri umani e per omicidio.

Il caso di Tareq è uno degli oltre 2.500 casi di “scafisti” che in Italia sono stati arrestati dal 2013 con l’accusa di aver condotto le barche o aver contribuito all’organizzazione dei viaggi illegali. L’associazione Porco Rosso di Palermo e la rete Alarm Phone, con la collaborazione di Borderline Sicilia e Borderline-Europe, hanno analizzato i dati della polizia italiana e ascoltato le persone coinvolte per il report Dal Mare al Carcere.

Almeno venti soggetti su mille casi studiati hanno ricevuto pene superiori ai venti anni e sette l’ergastolo. Nel caso di strage in mare, come quando viaggiava Tareq, la condanna è anche per omicidio. Dallo studio di carte processuali e sentenze emerge un fenomeno di criminalizzazione del migrante. «Questo è il chiaro fallimento delle politiche migratorie che vorrebbero contrastare l’immigrazione irregolare», dice l’avvocata Germana Graceffo, esperta di immigrazione.

Questione di pelle

Ci sono vari tipi di “scafisti”: migrante-capitano forzato, costretto spesso con la violenza a guidare la barca; migrante-capitano per necessità, che si trova a guidare in condizioni di alta pericolosità del mare; migrante-capitano mercenario, che non fa parte del business dei trafficanti, ma che riceve un vantaggio, come portare delle persone a bordo senza pagare; e infine il capitano capo dell’organizzazione che trasporta per un tratto di mare i migranti e rientra subito, l’unico che non rischia l’arresto.

La polizia vuole sapere chi ha guidato la barca e non approfondire la dinamica dell’incidente. L’uniformazione dei profili target delle indagini, talvolta con pre-identificazione cromatica dei colpevoli da parte della polizia giudiziaria (i migranti nordafricani sono i carnefici, quelli subsahariani le vittime), e i capi d’imputazione identici nei vari processi dimostrano quanto poco si consideri la singolarità delle storie.

Era il 15 agosto 2015, Tareq aveva 20 anni: durante il tratto in barca 49 persone sono morte asfissiate sottocoperta e Tareq, insieme ad altri libici, è stato additato da alcuni passeggeri come uno dei responsabili. Dopo la conferma della sentenza alla corte di Cassazione il 2 luglio scorso, Tareq ha detto alla sua avvocata Saerena Romano che la sua vita «era finita». Ma nel suo come in molti processi esaminati nel report, ci sono molte cose che non tornano. Per l’avvocata Romano, «il processo è stata una farsa», con traduttori non sono interpreti professionisti e lacune nelle trascrizioni. Le identificazioni sono state fatte con foto in bianco e nero e sgranate, e non in presenza. Inoltre le dichiarazioni sono state prese da 9 testimoni su 313 sopravvissuti.

Tra le criticità anche «l’impossibilità giuridica di celebrare questo processo in Italia per omicidio, è necessaria una richiesta formale del ministero della Giustizia quando si tratta di omicidio avvenuto fuori dal territorio italiano», mentre il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina viene processato in Italia.

Gli elementi poco chiari delle testimonianze raccolte dopo il naufragio non provano cosa sia veramente successo in barca. Osserva l’avvocata Romano: «Se Tareq era accanto alla porta della stiva sotto la quale sono morte 49 persone, vuol dire che è responsabile della loro morte? E semmai avesse impedito a qualcuno di uscire da quella botola, così come viene accusato da testimoni mai più sentiti, non l’ha fatto in circostanze estreme in cui qualsiasi movimento delle persone avrebbe potuto causare il capovolgimento della barca e la morte di tutti?». Nessuno dei passeggeri, e quindi dei testimoni, sapeva che in stiva ci fossero delle persone, né quante fossero. Potrebbero essere morte anche quando dalla costa libica sono state rinchiuse là dentro.

Verosimilmente

Nella sentenza di appello, viene riportato che da quello che emerge dalle dichiarazioni i calciatori libici verosimilmente sono stati reclutati come trafficanti prima dell’equipaggio. Una condanna che si basa sull’avverbio “verosimilmente”. «Ciò che deve essere ripensato» afferma Germana Graceffo, «è l’impianto normativo che mette sullo stesso piano chi gestisce e organizza il traffico con chi risulta essere soltanto una pedina in mano agli sfruttatori o una loro vittima. Le morti in mare sono conseguenza diretta della mancanza di canali legali di ingresso».

Della squadra di lavoro del report Dal mare al carcere fa parte anche Cheikh Sene, pescatore senegalese che ha lasciato il suo paese a causa della crisi e ha attraversato il Mediterraneo dalla Libia. «Ho passato due anni in carcere solo perché ho aiutato a guidare la barca e per sette mesi non ho visto un avvocato, quando l’ho visto non parlava la mia lingua», racconta. «Oggi le persone che sanno che verranno arrestate, non aiutano più nella conduzione della barca e questo aumenta il rischio di morti in mare».

Dal Mare al Carcere racconta anche di assoluzioni. Il disagio economico e sociale dopo il carcere è enorme, nonostante sia previsto un risarcimento. Ma spesso gli ex-detenuti che ne avrebbero diritto non vengono adeguatamente informati oppure sorgono problemi burocratici, di tempi massimi di richiesta, di instabilità legale. Tanti ostacoli anche una volta ottenuta la libertà, perfino di reperibilità dei migranti. Forse perché una volta liberi, con l’Italia non vogliono più averci nulla a che fare.

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