Kassala. A 15 chilometri dal confine sudanese-eritreo. I monti Taka avvolgono questa città del Sudan occidentale, capoluogo dell’omonima provincia. Ai loro piedi, una moltitudine di piccole case marroni e verdi; a pochi chilometri il confine con l’Eritrea. A delimitare la frontiera naturale tra i due paesi il fiume Gash, che sorge nel sud dell’Eritrea, vicino ad Asmara e continua nel Sudan nord-orientale per perdersi nel deserto.

È lungo queste antiche rotte, che si è consumato quello che le Nazioni Unite hanno chiamato il peggior traffico di esseri umani. Il servizio militare obbligatorio e permanente ha spinto migliaia di eritrei alla fuga.

«Vogliamo la libertà»

Asmara, Keren, Agordat, Barentu. Fino a Kassala sul confine sudanese. In fuga dal regime di Isaias Afewerki, ogni anno migliaia di giovani eritrei sfidano i cecchini per attraversare la frontiera con il Sudan, tra le 7.500 e le 9.000 persone, afferma la commissione governativa sudanese per i rifugiati.

Secondo l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dall’inizio del conflitto nel Tigray, altri 62.166 rifugiati, per lo più etiopi, sono fuggiti nella regione. Il Sudan ospita una delle più grandi popolazioni di rifugiati in Africa, principalmente dal sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Repubblica Centrafricana, dall’Etiopia e dal Ciad.

Alcuni dei nuovi arrivati eritrei vengono registrati e ospitati nel centro di accoglienza di Wedsherify, prima di essere trasferiti al campo profughi di Shegarab.

Davanti alla porta di metallo bianco aspetta un gruppo di donne con veli colorati. «Non abbiamo cibo, aiutaci», supplica una di loro. Dietro il cancello, una tettoia fa da riparo a un dormitorio improvvisato. Ci sono un centinaio di profughi. Alcuni sono malati. Chiedono farmaci.

Con suo padre costretto a un servizio militare a vita, che presto avrebbe intrappolato anche lui, Fithawi ha camminato per ore senza cibo né acqua per raggiungere il Sudan. Ha vent’anni, uno sguardo intenso e poche parole. Si lascia alle spalle un paese governato da una dittatura segreta accusata di violazioni dei diritti umani, che sta giocando un ruolo enorme nella più grande crisi migratoria globale al mondo.

«Abbiamo paura della guerra in Tigray e di essere reclutati. Non vogliamo andare a combattere. Vogliamo libertà», racconta Fithawi dal centro di transito di Wadsharefy, diventato il punto zero per l’esodo dall’Eritrea.

Sawa

Le Nazioni Unite stimano che negli ultimi anni 400mila eritrei, il 9 per cento della popolazione, siano fuggiti, senza contare quelli che sono morti o sono rimasti bloccati durante il viaggio.

A Wadsharefy, dove gli eritrei sono stati accolti come rifugiati sin dagli anni Ottanta, quando combattevano per l’indipendenza contro il governo comunista in Etiopia, le baracche in lamiera delle Nazioni Unite sono ora diventate un mosaico di case di cemento. Gli adolescenti, bloccati da settimane nel centro di transito raccontano della loro fuga dalla coscrizione obbligatoria e del collasso economico e sociale dell’Eritrea. «Sawa» è la parola che ricorre più frequentemente nei loro ricordi. Ogni anno il governo eritreo manda centinaia di studenti dell’ultimo anno di scuola superiore all’isolato campo militare di Sawa, poco distante dal confine con il Sudan.

«Quando vai a Sawa, hai paura di pensare – racconta Binyam, 20 anni e inglese fluente – non potevo vedere un futuro lì. Avevo perso ogni speranza». Come lui, ogni anno, centinaia di adolescenti vengono ammassati nella base militare di Sawa. Quattro mesi di addestramento, poi un esame che determina se sono ammessi come soldati o se possono continuare la loro formazione come riservisti.

Circa i due terzi vengono immediatamente mobilitati come soldati. Ma tutti rimangono coscritti, spesso per decenni. Rinchiusi in un sistema che paga uno stipendio mensile di 500 nakfa, circa 10 dollari al mercato nero, e gli è vietato lasciare il paese.

Senza alternative

La sicurezza e la stabilità sono una vera sfida: la regione è anche teatro di vari conflitti etnici e territoriali. A Wadsharefy e nei piccoli villaggi ai piedi dei monti Taka, molti residenti sono di origine Hadendawa, oltre ai nomadi Rashaida e Beni-Amer, con altri dal Tigray e dal Bilen che sono emigrati dall’Eritrea negli ultimi tre decenni. Membri dell’intelligence eritrea e sudanese si mescolano con rifugiati e disertori eritrei ed etiopi.

La situazione è molto pericolosa: alcuni rifugiati riferiscono che molti dei loro compagni sono rimasti feriti da militari eritrei mentre tentavano la fuga. E in Sudan il percorso è ancora più rischioso e i rapimenti di Eritrei sono un grande affare. La regione di Kassala è un’area dove vivono molti Rashaida, una tribù nomade nota per il suo coinvolgimento nel traffico di esseri umani.

Nei piccoli villaggi o davanti alle modeste case, troneggiano i loro 4x4. Per anni, i rifugiati venivano regolarmente rapiti nella regione e inviati nel Sinai dove venivano torturati per ottenere un riscatto.

Kassala è il punto di partenza per altre destinazioni, e i Rashaida non sono gli unici ad offrire i loro servizi come contrabbandieri. La domanda è alta. All’entrata del centro di transito gestito dal governo sudanese a Wadsharefy, un cartellone delle Nazioni Unite avverte: «La realtà è diversa».

Nell’immagine un barcone stracarico in pericolo nel Mediterraneo. Come molti giovani qui, Binyam non è sicuro di come pagherà il suo viaggio e se sopravviverà: «Ho sentito che le persone stanno morendo, torturate o ridotte in schiavitù. Non ti mentirò, voglio prendere la strada per la Libia – dice – chi parte verso l’Europa non sceglie di partire. Qui non abbiamo alternativa».

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