Eravamo rimasti a Istanbul. L’ultimo gol ufficiale in una partita d’una squadra italiana l’aveva subìto in finale di Champions il portiere dell’Inter, André Onana. Un altro poteva segnarlo Romelu Lukaku e invece se l’è mangiato. Né l’uno né l’altro stamattina sono ancora qui, a due giorni dall’inizio del nuovo campionato. Eravamo rimasti a Enschede, ultima tappa della vecchia stagione, 18 giugno, dove la nazionale aveva battuto l’Olanda nella finale per il terzo posto della Nations League. Curioso: anche Roberto Mancini non c’è più, dimissionario nella domenica prima di Ferragosto, si svuotavano le città e s’è svuotata pure la panchina dell’Italia. Oppure eravamo rimasti a Udine e a Fuorigrotta, dove il Napoli ha festeggiato il suo scudetto alla fine di trentatré anni d’attesa, celebrato come un passaggio epocale per la città, l’ultimo frammento di un periodo luminoso che incrocia il turismo e la musica, il cinema e la narrativa, un allineamento di pianeti. Pure questa scena è diventata presto un deserto da ripopolare, quando se ne sono andati l’allenatore (Luciano Spalletti) e l’architetto costruttore (il direttore sportivo Cristiano Giuntoli). 

Raccontato così, il calcio italiano sembra un presepe di precarietà, un fondale di sughero che non tiene, si sbriciola prima del tempo, condannato a contare solo il numero di calciatori in uscita dalla serie A, stavolta se ne sono andati all’estero in 125, compresi quelli tornati a casa dopo un anno in prestito, 22 in Inghilterra, 13 in Germania, cinque in Arabia, la novità dell'estate. Tra una centrifuga di sportswashing e l’ambizione semisegreta di gestire in futuro una Superlega mondiale, gli emissari della famiglia reale saudita sono venuti a prendersi due pezzi grossi (Milinkovic-Savic dalla Lazio, Brozovic dall'Inter) e colpisce perfino di più che abbiano portato via tre figure medie (Tatarusanu dal Milan, Roger Ibañez dalla Roma, Assan Ceesay dal Lecce), segno della volontà di dotarsi in un colpo solo dell’élite e della borghesia. 

Il quadro tecnico

Così, mentre a Empoli e Frosinone preparano i prati per la prima palla al cento - sabato ore 18.30 - tutt’intorno gira una giostra che si domanda quanto valga ancora il calcio italiano. Sarebbe una domanda interessante, se non fosse la stessa ogni volta. I discorsi non erano molto diversi l’estate scorsa, quando si sentiva dire che di campioni non ce ne sono più, siamo mediocri, siamo un campionato di transizione. Dodici mesi più tardi, scopriamo che esistono economie mondiali disposte ancora a spendere in serie A 640 milioni di euro. Qualcosa allora valevano, i signori rimasti tra noi un anno fa. Hanno prodotto tre finali europee con Inter, Roma e Fiorentina. Non succedeva dal ‘94. È bastato perderle.

Due settimane dopo i violini per il Rinascimento, sono arrivati i rintocchi di sconforto, era tutto finto. I cacciatori d’equilibrio predicano inutilmente che negli ultimi tre anni solo le inglesi hanno sommato risultati migliori. Siamo seduti su un’altalena, esposti al vento degli slogan. Se la nazionale non si qualifica per i Mondiali, la colpa è dei tanti stranieri. Eppure è la stessa percentuale che frequentava la serie A otto mesi prima, nei giorni dell’Europeo vinto a Wembley. Se la nazionale under 21 non si qualifica per le Olimpiadi, allora non siamo un paese per giovani, la colpa è di chi li mortifica, di chi non gli dà spazio in campionato. Solo che passa il Caso, guarda e si diverte: la under 20 va in finale ai Mondiali, la under 19 vince gli Europei e tra gli under 21 trionfa l’Inghilterra, dove i giovani giocano meno minuti che da noi. La fabbrica degli slogan ci convince che è sempre tutto da buttare. Adesso fa girare la voce che non nascono più campioni perché abbiamo smesso di far giocare i nostri figli per le strade, ci manca la fantasia, questi vanno alla scuola calcio, sono polli d’allevamento, ma quando i ragazzi potevano giocare solo per strada - anni 70, anni 80 - il motivo della crisi era chiaro, la mancanza di strutture, non ci sono campi, non ci sono istruttori. 

Non è vero che non nascono più campioni. Casomai non crescono. Un conto è stupire fra coetanei, un altro è imporsi tra i professionisti. La soluzione rimasticata come un chewing gum dice che bisogna far nascere le seconde squadre in serie C, ma se per assurdo tutt’e venti i club di A ne volessero una, dovremmo togliere posti a chi c’è già, bisogna andare a spiegarlo a Vicenza e Trieste, Perugia e Pescara, Taranto e Catania. Sempre che un anno da titolare in serie C davvero faccia miracoli su un diciannovenne. La scienza su questo non si pronuncia. Anche le teste che pensano calcio, in Italia non sono appassite.

Carlo Ancelotti è un’eccellenza. Ha vinto campionati in cinque paesi diversi. Il Brasile non aveva mai avuto un Ct straniero nella sua storia. Hanno chiamato lui. Gli ultimi due allenatori campioni del mondo, Lionel Scaloni e Didier Deschamps, sono stati calciatori da noi. Non ci chiamano più solo per imparare a difendere, non esportiamo più Capello e Trapattoni, ma i De Zerbi (Brighton), i Maresca (Leicester), i Farioli (Nizza), tutti sotto i 45 anni, tutti pensatori di uno stile d’attacco, moderno, internazionale. Il grande calcio è mescolanza. Più l’Italia si chiude, più arretra. Ma è una prospettiva che fa fatica a imporsi, in un mondo che oscilla tra l’auto-referenzialità e la nostalgia tipica della nobiltà decaduta. Se insomma Donnarumma va al Psg, se Tonali va al Newcastle, gli editoriali di settore si immalinconiscono, pare arretratezza, invece è un segno di vitalità. E allora? Come stiamo?

Il quadro economico

La crisi del calcio italiano esiste ma è altrove. È una crisi di ricambio generazionale nella sua classe dirigente. Abbiamo avuto non più tardi di dieci anni fa un presidente federale squalificato per razzismo eppure rieletto, per la saldatura di interessi di gruppi di potere. Abbiamo avuto una gestione della pandemia senza coraggio, senza una visione, tutta centrata su un imperativo («Giocare, giocare, giocare») e un atteggiamento recriminatorio verso i vari governi, ai quali il calcio ha chiesto in continuazione ristori e soldi pubblici, con le sue lobby, i suoi strumenti di pressione mediatica. Un mondo che vive di deroghe e interpretazioni a regole e contratti, dove un calciatore può essere messo fuori rosa sia perché non rinnova e vuole andarsene, sia perché vuol restare e rifiuta il trasferimento. Quella che viene raccontata come arretratezza tecnica è in sostanza una crisi morale, una nuova povertà, la fine di un modello guida. 

Le gerarchie istituzionali sono rimaste sensibili ai brand e ai grandi marchi, mentre le nuove idee, le intuizioni brillanti, i comportamenti virtuosi si sono spesso affermati altrove, alla periferia dell’impero. Era fatale, nell’età in cui puoi scoprire prima di altri un campioncino in Norvegia o in Georgia grazie a un database. Il database è democratico. Non riconosce l’ancien règime.  

L’establishment tende invece a precipitare nel panico dinanzi all’indicatore di liquidità che impedisce alla Juventus di fare mercato prima di aver ceduto un giocatore. L’indicatore è il rapporto aritmetico tra le attività correnti (crediti, liquidità, i valori iscritti nell’attivo di bilancio) e le passività. Per prendersi Lukaku, la Juve deve vendere Vlahovic: segue dibattito su cosa sia più conveniente. Il 2023 è l’anno in cui l’Inter scopre di poter subire uno smacco sul mercato dall’Atalanta (Scamacca) o di non riuscire a prendere un giocatore dell’Udinese (Samardzic) perché i conti sono quelli che sono. Zhang è indebitato e ha rifinanziato il debito verso il fondo Oaktree, in scadenza a maggio 2024. Come garanzia ha concesso in pegno le azioni del club, alla prese con un patrimonio netto negativo. Per molti anni i dirigenti hanno fatto vivere le loro squadre al di sopra delle loro possibilità. È nato l’artificio del prestito con obbligo di riscatto. Prendo oggi e pago l’anno prossimo. Come dire che il venditore è anche il finanziatore dell’operazione.

È l’incrocio della finanza creativa con la vita spericolata. Rimandi l’impegno e speri. La Juventus ha bruciato così una mole di milioni in aumenti di capitale. In un Paese che ha accorpato scuole e chiuso ospedali, il calcio di Milano s’è votato a investitori stranieri, turandosi il naso. Nel maggio del 2021 Il Guardian si chiese come mai il partito comunista cinese fosse nella proprietà dell’Inter campione d’Italia, visto che l’Italia stava votando una risoluzione di condanna della persecuzione degli uiguri. Le tv che da decenni tengono in piedi il tendone coi loro soldi, sono determinate a fare un passo indietro.

La Lega sta facendo nascere la radio ufficiale del campionato, secondo alcuni la prova generale del prossimo canale privato in streaming. Gli ultimi dati parlano di un movimento indebitato per 5 miliardi e mezzo di euro. Ma pure da Parigi i campioni scappano e in Spagna stanno vivendo nella più totale austerity. Eppure gli stadi da noi sono di nuovo pieni, lo scudetto è appena finito su una quarta maglia diversa in quattro anni, Bergamo e Firenze sono reduci da un’estate di ambizioni rinfrescate. Sta succedendo qualcosa, non sappiamo ancora bene cosa. In genere, in questi casi, vince chi ha meno paura.

© Riproduzione riservata