Il suo secolo breve. Il centenario del legame fra la Juventus e la famiglia Agnelli cade giusto nel momento in cui l’ultimo rampollo della dinastia lascia il campo da sconfitto, su tutta la linea, compreso lo smacco estremo di consegnare al ramo Elkann il compito di liquidare una lunga e gloriosa vicenda.

Il 24 luglio del 1923, con la nomina del cavaliere Edoardo alla presidenza del club, prendeva il via una storia durata fino agli ultimi giorni di dicembre del 2022. Ma Il centesimo luglio degli Agnelli sarà anche il primo senza uno di loro a guidare la società, in via diretta o per interposta persona.

La breve parabola dell’ultimo esponente della dinastia, nelle grandezze e negli errori, conferma tutti i segni di una storia che ha comunque cambiato e modernizzato il calcio italiano nella sua cultura industriale e manageriale.

È stata una società leader, da qui in poi si apre un’epoca diversa, priva di riferimenti, con molte incognite. Più dei suoi stessi concorrenti, la Juventus vive la necessità di liberarsi del proprio modello, non più al passo con le innovazioni del calcio globale.

La caduta di Andrea

Non si può non partire dalla fine, da Andrea Agnelli, dal suo decennio, un arco di tempo che ha visto la Juventus toccare gli opposti estremi, l’estasi e l’ignominia. È stato alla guida del più glorioso fra i cicli, nove scudetti consecutivi (2011-20), ha oscurato nella mitografia bianconera il quinquennio 1930-35, presente nella memoria a partire dalla prima terzina della formazione (Combi-Rosetta-Caligaris).

La Juventus dell’ultimo Agnelli è stata capace di tirarsi fuori da un lungo periodo oscuro post-Calciopoli (ultimo scudetto vinto nel 2003) e di ricostruire la propria leadership in Italia, oltre a riposizionarsi fra le società più influenti d’Europa.

Ma proprio nel momento dell’apice è iniziata la decadenza, cominciata per uno scatto di hybris che formalmente coincide con l’ingaggio di Cristiano Ronaldo nell’estate 2018, la mossa che manda a sbattere una macchina perfetta e lanciata. In realtà il motivo è più sottile, un rinnegamento della cultura organizzativa che la famiglia aveva storicamente adottato, sia in Fiat sia in Juventus, la separazione fra proprietà e management.

In fabbrica la figura dei forti amministratori delegati – da Vittorio Valletta a Sergio Marchionne, passando per Cesare Romiti – ha caratterizzato la storia dell’azienda e sgravato gli Agnelli dal peso della gestione diretta, consentendo loro di assumere un ruolo più politico-simbolico.

Lo stesso è avvenuto nella Juventus a partire dagli Anni Sessanta quando, dopo gli anni dell’alternanza tra i fratelli Gianni e Umberto, la presidenza venne affidata a figure autorevoli come Vittore Catella (che guidò la trasformazione in spa) e soprattutto Giampiero Boniperti, per trovare successivamente applicazione con la triade Bettega-Giraudo-Moggi.

Una formula, quella dell’impegno non diretto della famiglia, che proprio con Andrea Agnelli si è interrotta nel 2010. Il progressivo protagonismo del presidente dei 9 scudetti consecutivi si è trasformato in pretesa di dominio assoluto, con il punto di non ritorno della cacciata di Beppe Marotta, contrario all’acquisizione di Cristiano Ronaldo, e la costruzione di una governance fatta di figure deboli sia per responsabilità sia per spessore manageriale.

Privo di contrappesi, Andrea Agnelli ha cominciato a non azzeccarne più una. Le vicende della Superlega e delle plusvalenze hanno soltanto accelerato una fine già scritta, radicata in un’ambizione personale smisurata e mal riposta.

Come erano

Rimane l’eredità di una parabola che forse è prematuro storicizzare, bisogna lasciar scorrere il respiro di almeno un decennio, ma che certo consente già adesso adesso di fare qualche considerazione di prospettiva. Gli Agnelli hanno portato subito nel calcio una prima forma di professionismo, chiudendo il ciclo di Pro Vercelli e Genoa.

Hanno fuso la vita della fabbrica con quella della squadra, quando negli anni 70 ingaggiavano calciatori meridionali, si diceva per creare un’identificazione più forte da parte degli operai emigranti. È riuscita a garantirsi un posto nella cultura italiana, con l’affascinante coacervo di contraddizioni che ha saputo incarnare. Una società torinese nata nell’alta borghesia e diventata nazional-popolare, la squadra del padrone per la quale tifavano incondizionatamente leader sindacali come Luciano Lama della Cgil e segretari del Pci.

Palmiro Togliatti era solito dire ogni lunedì a Pietro Secchia che non si può fare la rivoluzione senza sapere il risultato della Juventus. Il conflitto industriale e la lotta di classe restavano fuori dal campo per la cosiddetta “fidanzata d’Italia”, allo stesso tempo anche la più odiata dal resto della nazione. Il sentimento dell’anti-juventinismo è l’altra faccia di un’egemonia innegabile, perseguita anche attraverso un’ossessiva rincorsa al mito della modernizzazione.

Un aspetto che ancora una volta incarna una contraddizione, perché tuttora – con John Elkann a guidare indirettamente la macchina bianconera – la Juventus rappresenta un modello di capitalismo familiare che il resto del mondo del calcio ha superato, qualcosa di radicato nel secolo scorso.

E però tale persistenza di un’epoca andata in archivio ha saputo coniugarsi con la ricerca dell’innovazione a tutto campo. La decisione di quotare il titolo in Borsa, le precoci suggestioni da entertainment company (un’idea esposta prima di chiunque dall’ex amministratore delegato Antonio Giraudo), lo stesso il progetto della Superlega, che avrebbe dovuto essere gestito con ben altra tempistica e non con un piglio così dilettantesco.

Sarà materiale da approfondire negli anni che verranno. Per il momento rimane il presente, col primo mese di luglio nella storia senza un Agnelli a guidare le sorti della Juventus. Senza neppure il rito dei riti, l’amichevole Juve A contro Juve B sul campo di Villar Perosa, dove l’avvocato è stato sindaco. L’ultimo segno di una storia su cui Andrea ha tirato il sipario.  

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