Banchi standardizzati, concessioni numerate e un nuovo marchio ufficiale. Ecco il progetto dell’amministrazione capitolina che rischia di mettere in discussione l’identità storica del luogo. Le voci di intellettuali, artisti e commercianti: «Non chiediamo impunità: il Comune ignora la nostra proposta. Il risultato è un caos creato a tavolino utile a giustificare il reset completo»
Il Comune di Roma ha in mente di trasformare Porta Portese in un mercato «ordinato e riconoscibile», introducendo banchi standardizzati, concessioni numerate e un nuovo marchio ufficiale. Secondo gli esercenti (e i clienti) il piano cancellerà l’identità del luogo e costringerà all’uscita centinaia di venditori storici, esclusi dai nuovi requisiti richiesti.
Il mercato di Porta Portese a Roma non è una rovina da riqualificare. Oggi è un dispositivo sociale attivo, un organismo irregolare ma vitale che ha prodotto, per oltre settant’anni, lavoro, cultura, scambio e memoria popolare. La sua forza è sempre stata l’assenza di un centro di controllo. Un mercato all’aria aperta cresciuto fuori dagli standard, dove convivono il venditore di vinili e l’ex meccanico, il libraio itinerante e l’immigrato che svuota cantine.
Ora il nuovo progetto del Comune di Roma rischia di non correggerne le criticità ma cancellarle insieme a tutto il resto. «Era stato pensato dopo la guerra per fare mangiare i poveracci», mi dice Raffaele Tofani, che lì ha un banco di dischi usati. «Ora i poveracci li cacciano».
Il progetto di gualtieri
La cosiddetta “riqualificazione” che ha in mente il sindaco Roberto Gualtieri prevede un “banco tipo” standardizzato e brandizzato con il logo di Roma Capitale, postazioni numerate e un assetto urbanistico sorvegliabile, con flussi pedonali regolati, vie di fuga, aree ristoro e una selezione merceologica “rappresentativa”.
In nome dell’ordine si installa una nuova estetica della compatibilità. In nome della sicurezza si rimuove ciò che non ha etichetta. Il progetto – approvato nel marzo 2025 e affidato all’architetto Scarchilli – ridefinisce la fisionomia stessa del mercato: 840 concessioni (di cui 160 da 3x3 metri, riservate a categorie scelte), requisiti formali rigidi per la partecipazione, standardizzazione visiva totale. La funzione storica del luogo, intanto, scompare.
Il Comune parla di vocazione popolare da salvaguardare ma nella pratica impone criteri che escludono proprio chi quella vocazione l’ha incarnata: operatori senza partita IVA, venditori informali dell’usato, pensionati, artigiani marginali, collezionisti che lavorano quattro domeniche al mese.
«Ci chiedono di diventare imprese, ma non siamo aziende», spiega Tofani, che a Porta Portese vende dischi da trent’anni. «Come posso emettere fattura su un cd usato che ricevo in cambio di altri dieci? A queste condizioni, dovrei venderlo a 25 euro. Sarebbe la fine del mercato e dei clienti».
Le richieste degli esercenti
Il punto non è l’irregolarità: è la non conformità a una forma di impresa pensata per soggetti forti. Gli operatori storici infatti non chiedono impunità, chiedono di essere riconosciuti. La loro proposta – ignorata dall’amministrazione – prevede un modello consortile, con contribuzione settimanale parametrata all’Isee, codice fiscale tracciabile, regole condivise e gestioni autonome delle spese comuni.
Soluzioni concrete, già adottate altrove, che permetterebbero di distinguere tra chi lavora stabilmente e chi occupa spazio per conto terzi, affittando banchi. «Quello che c’è oggi è un caos creato a tavolino – dice Tofani – utile solo a giustificare il reset completo. Ma noi ci siamo da decenni. E i nostri dati li ha il Comune».
Non è un caso isolato. A Madrid, il Mercado de San Miguel è diventato un food court per turisti, con prezzi triplicati e venditori espulsi. A Barcellona, La Boqueria ha perso la sua funzione originaria sotto la pressione antropica della turistificazione. A Londra, il Borough Market è oggi un polo gourmet per un pubblico a reddito elevato.
Ovunque, il copione è lo stesso: si neutralizza la spontaneità, si impone una forma estetica omogenea, si sostituisce la realtà con una versione vendibile.
«Poca trasparenza e zero confronto»
Il Comune di Roma prova a farlo sottovoce. Il marchio “Porta Portese” è stato registrato come brand presso il Ministero del Made in Italy. L’obiettivo non è tutelare il mercato ma trasformarlo in prodotto. Il linguaggio usato – decoro, pulizia, sicurezza – è identico a quello con cui si sono già giustificate operazioni di espulsione altrove.
L’opposizione politica locale denuncia l’assenza di trasparenza e di confronto: il progetto, dicono, è stato condotto senza coinvolgere le commissioni competenti e aggirando le associazioni regolari, preferendo referenti non più legittimati.
Anche sul piano normativo le forzature sono evidenti. Il Piano Regolatore Generale qualifica l’area come parte della “Città Storica” e prescrive la valorizzazione del mercato. Il Codice dei Beni Culturali impone la tutela del profilo storico-identitario di un luogo, comprese le attività che lo incarnano. Ma nella pratica il progetto ignora tutto questo: non si limita a ridefinire gli spazi ma riscrive le regole di accesso, cancellando una parte della realtà che non può adattarsi alle nuove condizioni.
La critica più radicale arriva da Nicola Vicidomini, teatrante e frequentatore assiduo del mercato: «Questa - ci spiega - non è urbanistica, è rieducazione comportamentale. È l’ennesimo attacco all’irregolarità, all’imprevisto, alla vita che non si piega». Il “banco tipo”, per Vicidomini, è una gabbia concettuale, il logo un atto di espropriazione. «Tra il bianco asettico e la poesia del disordine, io sto con la ruggine, con il banco scomposto, con il venditore abusivo, con il canto stonato». E non è solo: artisti come Ascanio Celestini, Nino Frassica, Antonio Rezza hanno già promesso sostegno e mobilitazione pubblica.
Porta Portese resiste, ma viene messa sotto accusa la sua stessa natura. Si criminalizza il disordine, si delegittima l’informalità, si equipara il precario all’illegale. «È la sinistra che imita la destra e fa vincere la destra», dicono i commercianti.
Per ora il risultato è un mercato sorvegliabile, sterilizzato, fotogenico. Ma privo di poesia. E privo di realtà.
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