Un cuore cucito sul petto raffigurante la bandiera anarchica, opera di Goliardo Fiaschi, partigiano in Italia e Spagna e fondatore del Circolo Anarchico di Carrara.

Si è presentato così sul palco dell’Ariston Giovanni Truppi, durante la quarta serata, quella dedicata alla cover. Il cantautore napoletano, accompagnato da Vinicio Capossela e Mauro Pagani, ha riproposto Nella mia ora di libertà di Fabrizio De André, dall’album “Storia di un impiegato”, il lavoro più politico del cantautore genovese, dal quale Truppi omaggia anche il brano Canzone del Maggio, riprendendo alla fine dell’esibizione la frase «Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti».

Un pianoforte di legno chiaro, una canottiera rossa e la delicatezza poetica che contraddistinguono Truppi, hanno fatto da sfondo a un brano portato sul palco per ricordare i fatti gravissimi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua, dove oltre 100 imputati sono a processo per le violenze perpetuate nei confronti dei carcerati ma che diventa anche un inno all’empatia, all’ascolto e all’usare la propria voce in un contesto di massima risonanza per portare sul palco un tema destinato a far discutere.

L’artista spiega infatti il suo gesto sul proprio profilo di Instagram dopo l’esibizione, prendendo una presa di posizione chiara nei confronti del modello neoliberista: «Sono convinto che non esistano poteri buoni e che l’unica strada per vivere bene sia abbandonare, oltre al capitalismo, l’organizzazione attuale della società per sperimentare nuove forme di governo e di rappresentanza. Dovremmo lavorare di meno, delegare di meno, e dedicare parte del nostro tempo alla gestione della nostra vita insieme su questo pianeta, che è responsabilità di ognuno di noi e alla quale tutti dobbiamo partecipare».

#STOPGREENWASHING

Quella di Truppi però non è stata l’unica presa di posizione all’interno della serata: durante l’esibizione de La Rappresentante di Lista, che hanno portato sul palco la miglior cover della serata con una versione rivisitata del celebre brano del 1963 Be my baby delle The Ronettes, il dj e produttore Cosmo ha urlato “Stop Greenwashing”, dopo l’appello negli scorsi giorni da associazioni ambientaliste come Fridays for future e Greenpeace, con lo scopo di prendere di mira lo sponsor Eni e il green carpet che, come raccontato da Domani, accompagna gli artisti all’ingresso del teatro. La cover, che ha visto la partecipazione anche di Margherita Vicario e Ginevra, nasconde dietro al suo ritmo allegro un messaggio profetico: la fine del mondo, che arriverà probabilmente a causa della crisi climatica.

L’amore è da sempre uno dei temi più trattati nei brani in gara a Sanremo ma, fin dalla sua prima edizione, il Festival è stato anche teatro di dissenso: forte del grande successo di pubblico, la kermesse si è rivelata più volte il luogo in cui gli artisti in gara si fanno portavoce di denunce sociali, portandoci a riflettere sulla cruda realtà di un paese ferito, fuori dai riflettori dello Spettacolo. Dalle speculazioni edilizie di Celentano in Il ragazzo della Via Gluck all’abusivismo de La Terra dei Cachi di Elio e le storie Tese, dal tema dell’abuso di sostanze stupefacenti, portato sul palco da artisti come Alice in Per Elisa e Masini in Perché lo fai, alle violenze domestiche raccontate da Ermal Meta in Vietato morire. Non potevano mancare quindi anche quest’anno i momenti di dissenso. Ma veniamo alle cover.

LE COVER

Da un lato, ci sono artisti che hanno rischiato poco, come Noemi, Giusy Ferreri e Yuman, che hanno portato sul palco rispettivamente (You make me feel like) A natural woman di Aretha Franklin, Io vivrò senza te di Lucio Battisti e My Way di Frank Sinatra, che avrei preferito nella versione marcia di Sid Vicious, almeno non avrei corso il rischio di addormentarmi.

Dall’altro, c’è chi ha portato grandi successi dance: Elisa canta What a Feeling di Irene Cara, accompagnata dalla ballerina di amici Elena D’Amario, con collegamento con il maestro Giorgio Moroder che mi ha fatto venir voglia di abbandonare tutto e andare in camera da sola a ballare i Daft Punk.

Ci sono poi Emma e Francesca Michielin con Baby One More Time di Britney Spears. Amadeus, ti prego, il pezzo è del 1999 e non del 1989 e per chi come me era pre-adolescente in quel periodo è letteralmente un inno generazionale. Peccato che le due artiste riescano a rovinarlo, con una interpretazione degna di Anastacia che finisce con un «It’s Britney Bitch», l’iconica frase di Gimme more, il brano del 2008 che ha segnato il ritorno della Spears sulle scene dopo il tracollo psicologico del 2007 e che è un grido all’empowerment femminile, che Emma e Michielin hanno più volte rappresentato durante la kermesse.

Lauro decente

Incredibilmente Achille Lauro è riuscito a fare un’esibizione decente, accompagnato da Loredana Berté sulle note di “Sei bellissima”. Momenti di puro terrore negli occhi di Irama quando Gianluca Grignani s'è messo a correre verso il pubblico durante la cover di “La mia storia tra le dita”, regalandoci un’esibizione a tratti surreale..

A vincere la serata della cover sono però stati Gianni Morandi e Jovanotti, con un medley dei brani più celebri dei due artisti. Jovanotti è stato poi protagonista di un intermezzo in cui ha letto la bellissima poesia “Bello mondo” di Mariangela Gualtieri, dove però sostiene che “poeta” sia una parola neutra, dimenticandosi forse la concordanza di genere e il fatto che si possa dire anche poetessa.

GIANNETTA E L’INSPIRATIONAL PORN

La quarta co-conduttrice scelta da Amadeus è spigliata, simpatica e sa tenere il palco. Peccato che per circa 3 ore sia letteralmente scomparsa nel nulla, facendomi pensare di contattare Federica Sciarelli per uno speciale “Chi l’ha visto?”.

Ci propizia poi con un monologo di quelli che rispettano tutti i dettami della pornografia del dolore: è scritto apposta per suscitare una risposta emotiva nel pubblico, relegando però le persone cieche, che l’hanno aiutata ad entrare nella parte del personaggio interpretato nella fiction Rai “Blanca”, a “guardiani” e “angeli” che non hanno proferito parola, portandomi a chiedere se fossero ciechi o muti.

L’attivista Sofia Righetti, che da anni affronta il tema della disabilità, ha parlato più volte sul proprio profilo di “inspirational porn”, un’espressione coniata dall’attivista Stella Young e che «si riferisce a tutte quelle storie che sfruttano la disabilità come fonte d’ispirazione per le persone non-disabili», di fatto spettacolarizzandole. Che sia arrivato il momento di essere davvero inclusivi, cambiando questo tipo di narrazione?

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