Con l’estate e il mare calmo sono puntualmente aumentati gli arrivi di migranti via mare. Si è così tornati a parlare degli sbarchi, questione che negli ultimi anni ha avuto un’attenzione mediatica enorme. Gli “sbarcati” sono soltanto una parte degli immigrati che entrano in Italia, eppure, nel dibattito pubblico, si parla quasi esclusivamente di loro.

Non una parola sui ricongiungimenti familiari, numericamente più consistenti, poca attenzione sui corridoi umanitari, che ne meriterebbero invece molta come best practice. Del resto, il termine “sbarco” appartiene al gergo di guerra, evoca l’invasione e provoca allarme. È facile brandire gli sbarchi dei migranti come una clava con cui percuotere l’opinione pubblica, provata dalle difficoltà del presente e inquieta di fronte alle incertezze del futuro. Pochi sanno, però, che il più grande sbarco di migranti nella storia italiana si verificò esattamente trent’anni fa.

Era l’8 agosto del 1991 quando l’imponente sagoma del mercantile Vlora comparve all’orizzonte del mare di Bari, con 18mila albanesi a bordo. Avrebbe potuto essere un grande approdo, se quelle donne e quegli uomini, perlopiù giovanissimi, fossero stati trattati come i loro connazionali, ben 24mila, arrivati a Brindisi su varie imbarcazioni nel marzo precedente, accolti con permessi di soggiorno umanitari (i primi mai concessi) che consentirono loro di cercare lavoro e iniziare una nuova vita in Italia.

Così non accadde. Per il governo italiano, gli albanesi di agosto erano diversi da quelli di marzo.

La fuga

Il dibattito sull’immigrazione, che si era acceso dopo l’omicidio di Jerry Essan Masslo nel 1989 (un rifugiato sudafricano in Italia, assassinato da una banda di criminali) e il successivo varo della legge Martelli (che disciplinava alcuni aspetti dell’immigrazione), stava virando verso posizioni di chiusura, mentre l’Albania dava qualche segnale di democratizzazione, con l’apertura al multipartitismo. Così, in quel convulso 1991, nel giro di pochi mesi gli albanesi passarono da profughi da accogliere a pericolosi invasori da respingere.

I 18mila della Vlora furono così rimpatriati. Si trattava di persone salite su quella nave semplicemente perché era stato, d’improvviso, possibile, visto che i poliziotti nei porti non sparavano più su chi assaltava le barche e anzi gettavano a terra le divise e si confondevano con la folla.

Persone in fuga dal “paese delle aquile”, quel lembo di Balcani che si riesce a scorgere da Otranto, nelle giornate limpide. Una terra tra la montagna e il mare che la lunga dittatura di Enver Hoxha (1908-1985) aveva trasformato in una prigione a cielo aperto.

L’Italia in televisione

L’Albania sprofondava in una crisi economica drammatica e gli albanesi fuggivano in gran numero. La stampa italiana ribattezzò quei profughi “il popolo delle zattere”, un popolo tanto audace e disperato da affrontare il passaggio del canale di Otranto con ogni mezzo, persino piccoli legni di pescatori. Quanti affogarono, in quel salto dell’Adriatico, non si saprà mai.

Gli albanesi, che conoscevano davvero poco del mondo e non avevano potuto espatriare per decenni, sbirciavano l’Italia attraverso i programmi della Rai. Li seguivano clandestinamente, grazie alle antenne paraboliche camuffate sui tetti come si poteva, tenendo alla sera le imposte delle finestre accostate per non far vedere dall’esterno i bagliori provenienti dallo schermo. Vedevano un’Italia patinata, pubblicitaria, ai loro occhi ricchissima, comunque distante dalla realtà. L’Italia era la loro America.

La paura dell’invasione

I 18mila della Vlora furono rimpatriati ma alla loro partenza rimase, su questa sponda dell’Adriatico, la paura dell’invasione. Il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale, la dissoluzione della Jugoslavia, il tracollo economico albanese, facevano temere esodi incontrollabili, mentre dalla sponda sud del Mediterraneo partivano le prime barche alla volta di Lampedusa. Sui media italiani esplose l’allarme invasione.

A qualcuno sembrò che quel grande sbarco di migranti preannunciasse un cataclisma, persino la fine della civiltà occidentale.

Su Repubblica Eugenio Scalfari paventò «un’invasione di dimensioni analoghe a quelle che forzarono da nord e da est i confini dell’impero di Roma millecinquecento anni fa sconvolgendolo dalle fondamenta». Il deputato dei Verdi Edo Ronchi, durante un dibattito parlamentare, affermò che il disastro economico dell’est avrebbe avuto come conseguenza «un’emigrazione verso Occidente di dimensioni colossali, con conseguenze di ordine sociale e culturale che potrebbero mettere addirittura in forse la sopravvivenza della democrazia in Europa».

Trent’anni dopo, la democrazia in Europa gode di discreta salute, nonostante qualche acciacco.

Non c’è stata la paventata invasione, né è crollata la civiltà occidentale. Gli albanesi della Vlora che nel 1991 furono respinti, descritti dai media come selvaggi e impossibili da integrare, sono tornati in gran parte in Italia, negli anni seguenti.

Oggi vivono qui circa 440mila albanesi, completamente integrati nel tessuto sociale e produttivo del paese. Se la storia ci insegnasse qualcosa, se la vicenda della Vlora fosse più conosciuta, smetteremmo, forse, di gridare all’invasione ogni qual volta una barca di migranti giunge sulle nostre coste.

Valerio De Cesaris è professore ordinario di storia contemporanea e rettore dell’Università per stranieri di Perugia. Alla vicenda degli arrivi degli albanesi in Italia nel 1991 ha dedicato il libro Il grande sbarco. L’Italia e la scoperta dell’immigrazione, Guerini e Associati, 2018.

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