Fino a qualche anno fa a Edimburgo coesistevano, a pochi metri gli uni dagli altri, ristoranti italiani di prima e seconda generazione. I primi erano bui e silenziosi, frequentati da una clientela che era rappresentata dai superstiti della prima immigrazione operaia. I piatti che venivano serviti erano quelli tradizionali
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Una decina di anni fa a Edimburgo i ristoranti italiani di prima e seconda generazione li potevi vedere a qualche decina di metri di distanza gli uni dagli altri. Ero lì per il mio PhD e mi piaceva passeggiare nella cosiddetta New Town, il quartiere più esclusivo situato proprio di fronte al celebre Castello e al centro storico medievale.
In fondo alle strade secondarie si potevano ancora trovare alcuni ristoranti italiani di una volta. Luoghi non molto illuminati, spesso silenziosi (a parte qualche aria di Verdi o Rossini che ne veniva fuori), emarginati nei sottoscala tipici di quella zona, con una clientela attempata e quasi sempre di origini italiane. Ai tavoli molti uomini soli o famiglie numerose, con anziani orgogliosi e ragazzi annoiati.
A Edimburgo gli italiani arrivarono alla fine dell’Ottocento, quando Londra era satura di operai. Nella capitale scozzese, oltre a lavorare nelle fabbriche della Rivoluzione industriale, facevano i piastrellisti, attività in cui venivano considerati bravissimi, i muratori e i più fortunati anche i gelatai, arte di cui furono eletti maestri indiscussi.
Gli italiani di Edimburgo venivano soprattutto da molte regioni appenniniche, dal Sud e dal Veneto. I ristoranti italiani che aprirono erano pensati per loro, non essendo ancora l’epoca dei foodies e degli avventurieri gastronomici. Quegli ultimi ristoranti che erano rimasti ancora dieci anni fa portavano i tratti di quell’emigrazione povera e modesta, fatta egualmente di uomini e donne.
E proprio alle donne italiane emigrate a Edimburgo il Piccolo Teatro ha dedicato qualche anno fa lo spettacolo A Bench on the Road, raccontando le illusioni, i sogni e le discriminazioni delle italiane andate a Edimburgo nella speranza di dare un futuro ai propri figli. Ancora dieci anni fa, in quegli ultimi ristoranti, le carbonare erano strettamente con il guanciale, i formaggi quelli della tradizione piemontese e veneta, i piatti e le tovaglie quelli dei nostri nonni.
La seconda generazione
Ma poi c’era già il nuovo. Giravi due angoli e nelle strade principali trovavi i nuovi ristoranti italiani: luminosi, con le pareti colorate e la musica di Pausini o Ramazzotti. Ci trovavi, e ancora ci trovi, la pizza con la burrata, la carbonara “vegetarian friendly”, e la rana pescatrice nel “rich guazzetto” con i “Vesuvian piennolo tomatoes”. I clienti sono giovani o adulti curiosi.
Alcuni sono i nuovi immigrati italiani: ricercatori, impiegati, studenti, manager, medici, infermieri e i tantissimi ingegneri che lavorano nelle aziende tecnologiche di cui pullula la città. Poi ci sono gli scozzesi o i turisti appassionati e curiosi della nostra cucina ormai nota in tutto il mondo, in cerca di esperienze che spostino sempre un po’ più in là qualsiasi confine.
Insomma, a Edimburgo per un momento il passato e il futuro hanno convissuto in un presente ancora incerto, diviso tra tradizione e innovazione. Gli immigrati di prima generazione portarono la cucina italiana nel mondo, ma era una cucina povera, spesso snobbata dal paese ospitante.
Come riportato dalla storica Linda Civitello, durante la Rivoluzione industriale gli immigrati italiani venivano presi in giro per le loro abitudini alimentari, per esempio perché allevavano gli animali nel cortile dietro casa. I dietologi consideravano quello che gli italiani mangiavano cibo ricco solo di vitamine (per l’abbondanza di verdure e frutta) e povero di proteine, quindi poco adatto per chi faceva lavori faticosi.
Ma dagli anni Ottanta e Novanta l’Italia divenne attraente anche in Scozia. Gli artefici di questo successo furono tantissimi: artisti scozzesi di famiglie italiane emigrate (come il celebratissimo Eduardo Paolozzi, seguito poi da Lewis Capaldi e Paolo Nutini), oggetti di design, film, e persino i voli low cost che fecero conoscere l’Italia e il suo cibo al turismo di massa. Gli italiani divennero improvvisamente delle autorità in fatto di stile e gastronomia; prodursi il cibo a casa, come facevano i primi, irrisi “immigrati”, era ora una moda vincente.
L’integrazione
Inoltre a Edimburgo gli italiani di seconda generazione impararono non solo l’inglese, ma anche l’impossibile slang scozzese, e divennero imprenditori, aprendo pasticcerie, bar e altre attività legate al cibo. Erano i figli di quelle donne raccontate dallo spettacolo teatrale citato sopra. Lo scopo di quelle madri era stato raggiunto, avevano dato un futuro ai loro figli.
Il trend italiano era perfetto per i politici scozzesi che dagli ultimi anni del Novecento decisero di puntare sul turismo, tra le risatine scettiche degli odiati cugini inglesi. Il cibo italiano poteva essere uno dei fattori trainanti di un nuovo turismo culturale ed esperienziale. E lo fu, trasformando la Scozia in una destinazione gettonatissima e dando ragione alla fine a quei governanti coraggiosi.
Da anni è già partita la discussione su quale dei due cibi sia più italiano, se quello della prima o della seconda generazione; ma è ovviamente una domanda senza risposta. Se è vero che niente come il cibo si connette a valori culturali, periodi sociali, ideologie e stili di vita, possiamo tranquillamente dire che ognuno dei due è stato il cibo italiano perfetto per l’epoca in cui è stato prodotto, commercializzato, preparato e mangiato. Da piastrellisti a ingegneri, da gelatai a imprenditori, gli italiani di Edimburgo hanno fatto molta strada: per quale motivo il loro cibo avrebbe dovuto restare lo stesso?
E così i ristoranti italiani di prima generazione a Edimburgo ci raccontano l’immigrazione italiana in Scozia tra 1850 e 1970 come nient’altro. Un’immigrazione spesso coperta da quella di Londra o di altri paesi come il Belgio, gli Stati Uniti o l’Australia, e su cui c’è ancora molto da scoprire.
Tanto che l’Università di Edimburgo ha recentemente aperto un gruppo di ricerca sull’argomento, The Italo-Scottish Research Cluster, con relativo archivio online, in cui uno dei progetti riguarda i bar e i caffè aperti dagli italiani nella capitale scozzese.
Specularmente, niente come la parmigiana con il miele e l’immancabile burrata, piatto tutt’ora servito a Edimburgo in un ristorante italiano, può essere considerato un elemento perfetto della cucina italiana di oggi, un prodotto pensato per un target curioso e sempre in cerca di novità e avventure (a volte estreme come nel caso della parmigiana in questione).
D’altra parte, sappiamo che anche i piatti considerati “autentici” hanno conosciuto prima di arrivare a noi influenze, adattamenti e cambiamenti molto simili a quelli dei piatti di oggi.
Lasciando stare le domande inutili, allora, è più interessante tornare in quelle strade secondarie dove non ci sono più i vecchi ristoranti italiani. I paesi poveri, adesso, sono altri, e i loro ristoranti sono lì, in quegli stessi sottoscala dove una volta c’erano gli italiani: sale buie, tovaglie e piatti di una volta, cibi “incontaminati” dalle novità, e una clientela di famiglie numerose, con anziani orgogliosi e ragazzi annoiati.
In attesa che il vento cambi e che ci sia anche per loro il grande salto che li porti nelle strade principali, tra luci, pareti colorate e piatti aggiornati quando non rivoluzionati.
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